mercoledì 31 marzo 2010

Un'ottima annata


"Godibile, senza pretese" per usare parole comunemente frequenti nel vocabolario del critico di cinema che stimo di più: Paolo Mereghetti. Questo film mi ha ricordato l'importanza dell'influenza dell'idea di partenza che si ha quando si guarda un film. Avevo letto che "Un'ottima annata" era un film melenso. In effetti lo è, ma riesce a contenersi, tanto da far risultare tutto tollerabile e far esaltare i colori, il verde e quel briciolo di predica sui veri valori che, in piccole dosi, non guasta mai. Da vedere in una serata di stanchezza.

La giusta distanza


Una storia piccola, come quella di tante persone comuni e come i pensieri comuni di tante persone. La nebbia dell'indefinito paesino della bassa padana è come l'ottusità mentale dei luoghi comuni: annebbia, ma non oscura totalmente. La protagonista di questo film è una giovane maestra di scuola, il cui volto candido è quello della dolce e brava Valentina Lodovini. Molti stereotipi attraversano questa storia, ma i personaggi non scadono mai nella macchietta ed i pochi tratti che delineano i più marginali sono sempre abbastanza studiati da garantire ad ogni figura un suo spessore. Mazzacurati riesce nell'intento di trasmettere un messaggio retorico senza scadere nella retorica, perchè si accontenta dell'immensità delle piccole storie, che possono concedere tanto allo spettatore proprio perchè facilmente credibili e profondamente vicine alla vita ed ai pensieri comuni di tutti i giorni.

lunedì 29 marzo 2010

Magnolia


"Magnolia" fotografa la società odierna esacerbando gli aspetti cinici ed i sentimenti più inumani dell'essere umano stesso. I personaggi sono tanti e ben delineati, le loro storie, con la soffocata sofferenza che le contraddistingue, si intrecciano contribuendo a dare un sapore amaro alla trama. Il guru del sesso, la farmacodipendente, il padre sul letto di morte, il bambino prodigio, il dipendente licenziato all'improvviso, la cocainomane ed il poliziotto solo: c'è davvero tanta carne al fuoco e il crescendo di rabbia che il regista crea nello spettatore si sprigiona nella scena finale della pioggia delle rane. Quando ho visto questa scena per la prima volta, ho trovato il film così assurdo, mentre a distanza di anni mi è sembrata una trovata forte, che riassume la sensazione di oppressione di una vita, che ingabbia l'anima in sentimenti che non si vorrebbero mai provare. Essi purtroppo esistono e il regista azzarda che siano proprio quelli che guidano la società stessa. La storia è ben ideata. I personaggi sono magicamente al limite tra l'iperreale ed il surreale, ma i tempi registici imposti a questo film sono francamente troppo debordanti e le tre ore piene di narrazione finiscono con il diventare un limite intrascurabile alla godibilità del film. La storia acquista, così, un ruolo retorico, che mi ha indispettita come spettatrice perchè trasforma la trama in una sorta di omelia della vigilia di Natale.

domenica 28 marzo 2010

L'abbuffata


Calabria, amata, odiata terra di povertà, dimenticata da tutti e lambita da un mare che soffoca e dà speranza. E' questo il pensiero di Calopresti mentre cerca di scoprire qualcosa per cui valga la pena di tornare. In un irrazionale quanto visionario fluire di immagini e situazioni improbabili, questo film si compone faticosamente pezzo dopo pezzo. All'inizio sembra che nemmeno il regista sappia cosa voglia raccontare. Le prime scene sono sconnesse e da documentario. Piano piano una flebile quanto improbabile trama prende poveramente corpo ed il film sembra lì per lì, un disastro. Se non che viene da pensare che tutto ciò sia voluto: che veramente che questo senso di improvvisazione, che aleggia ridondantemente su tutte le scene non sia altro che l'emblema della terra che racconta. La Calabria è infatti una terra di transito, senza un'identità consapevole, dove il mare è l'elemento selvaggio ed immenso, che illumina, con la sua assenza di confini, piccoli, sconosciuti luoghi senza speranza, laddove i sogni vivono nell'anima degli abitanti senza pretendere troppo spazio.
La trama sembra, allora, raffazzonata come la terra che racconta; una terra simile ad un bambino piccolo pieno di energie e di risorse sconosciute e pieno di semplicità. Una terra come una borsa in cui ancora frugare, dove le star del cinema sono ancora sconosciute, ma comunque osannate perchè provenienti da un mondo superiore. Tutto procede nel modo meno credibile possibile, alimentando un'attesa grottesca che esplode nella scena finale in cui si sente un forte richiamo alle atmosfere gitane di Kusturica.
Da meridionale ho amato questo film proprio per i limiti che racconta e per questo tocco di irrealtà che con una folata di vento riesce a far dimenticare quello che inconsapevolmente si è.

sabato 27 marzo 2010

Happy family


"Happy family" è una storia corale che narra in maniera molto semplice e naif in senso buono la vita: i timori innanzitutto. Mettendo in ballo citazioni pirandelliane implicite ed esplicite, il regista osserva le indecisioni di un narratore che non sa fino a che punto lasciarsi tentare dalla finzione e fino a che punto, invece, vivere lasciando che le cose accadano in modo non prevedibile e armonico come succede, invece, nei film. Salvatores confeziona una storia che sprizza leggerezza ma non banalità. Anche se in genere non mi piacciono le storie dentro le storie, questo film mi ha fatto trascorrere due ore spensierate facendomi riflettere sulla bellezza della vita in maniera meno banale del previsto.

venerdì 26 marzo 2010

Smoke


Tutto inizia in una banale tabaccheria di un sobborgo di New York, dietro il banco del negozio, un eccezionale Harvey Keitel veste i panni di un tabaccaio. E' proprio questa tabaccheria il nucleo centrale del film, attorno alla quale si struttura tutta la storia. E' proprio con la leggerezza del fumo che ogni personaggio si immette, quasi impercettibilmente, nel film, entrando nella tabaccheria, e raccontando l'essenza e la poesia della propria vita. Non si parla di gente colta e ricca, ma di persone comuni, povere, di emarginati sociali, come il giovane diciassettenne di colore, che vaga per le vie di una malfamata Brooklyn, alla ricerca del proprio destino. E' la storia di una giovane donna povera e disperata, in cerca di soldi per salvare la figlia Felicity, che si fa di crack. E' ancora la storia di un semplice uomo, non troppo ricco, nè tanto povero, che fa lo scrittore. Il suo è il riconoscibile volto di William Hurt. "Smoke" è il ritratto di una società degradata e misera, è l'intrecciarsi delle storie di tanti personaggi diversi tra loro, ma accomunati dal fumo, che si tendono la mano vicendevolmente. Il film, però, non ha un tono pesante e grave, ma assume la leggerezza del fumo. Il messaggio è profondo e mira verso la sensibilità umana, senza, però, fare leva su grandi finanziamenti o effetti speciali, ma su una singolare ed interessante struttura su cui il film è costruito e sulla interpretazione veramente grandiosa di Keitel e Hurt.

Eyes wide shut



- E nessun sogno è solo un sogno...-
-L'importante è che ora siamo svegli-
New York. Feste. Soldi. Non-comunicazione, ma soprattutto maschere ed amore, o forse sarebbe meglio dire maschere e sesso. Quello che travolge la coppia Kidman-Cruise come una violenta passione vuota, fatta di marijuana e corpi sbronzi che si avviluppano freneticamente. Vite separate, amanti, tradimenti, crisi, follie, incubi. In un vortice precipitoso che mi ha condotto nei meandri della psiche, della coscienza, dell'essere e del voler essere. Un letto rosso sangue avvolge il vibrante Bill mentre ascolta le confessioni della moglie, perchè dietro quegli occhiali seducenti ci stanno gli occhi di una donna infelice, che cerca di più, ma che non trova. Un marito assente, una crisi coniugale perpetuata nel tempo ed il sesso come arma di gratificazione per riscattare una vita non vissuta. Due ore e quaranta di buio incombente, di maschere pirandelliane da scovare come emblemi di verità assolute (che poi diventano illusioni assolute). Il sogno incombe su di loro irraggiungibile e, come Alice e Bill si trasmettono tentennanti verso la fine, l'importante è svegliarsi.
Questo film mi ha assediato ogni possibile moto dell'anima, poi mi ha molestata lentamente con il suo geniale pessimismo di una apocalittica, cupa, deprimente, "crisi epocale" (Serena Dandini dixit).

Chloe


"Chloe" di Atom Egoyan è un film costruito in maniera estremamente tradizionale e piatta. Sembra un film di un'altra epoca. Eppure questo aspetto si amalgama bene con i sentimenti di gelosia e la paura del tradimento che la pellicola esplora. Julienne Moore non è mai stata così bella, nonostante le piccole impercettibili venature che il passare del tempo comincia a solcare sul suo volto. La sua bellezza si scontra in maniera stridente con il suo sentirsi vecchia e poco desiderabile nel film. L'attrice che interpreta Chloe ricorda molto la Scarlett Johannsson dei film di Woody Allen: tentatrice malefica, avvolta da una seducente ambiguità. La pellicola sembra tendere di più al raggiungimento di una bellezza estetica delle scene, che non al coinvolgimento emotivo.

giovedì 25 marzo 2010

Revanche - Ti ucciderò


I pensieri solitari dentro cui si annidano le angosce profonde di un uomo che pensa di aver perso tutto hanno il volto del bravissimo Andreas Lust. Nonostante il ritmo della trama ogni tanto lamenti qualche lentezza, la scenografia ed i dialoghi forniscono una eccellente rappresentazione dell'elaborazione della vendetta del titolo. Il protagonista rimane coinvolto in un dramma inaspettato e viene invaso da emozioni devastanti ben rappresentate dalla scena ripetuta in cui spacca la legna per il padre: come se quella legna fosse lui stesso spezzato dal dolore. Dall'altro lato la storia parallela del poliziotto e della moglie, anche loro con le loro angosce. Dalla paura di non riuscire ad avere figli a quella di non riuscire a sopravvivere ai rimorsi della propria coscienza. E' quest'ultima, infatti, la vera protagonista di questa storia, che narra sentimenti complessi e situazioni dense di sfumature facendo sfoggio di una grande li nearità.

martedì 23 marzo 2010

Il profeta


Nonostante la regia francese, "Il profeta" non ha per nulla tempi lenti, anzi riesce a tenere un ritmo da gangster serrato nonostante l'ambientazione monotona della prigione. Personalmente tendo a giustificare di rado il debordamento dei 120 minuti, ma questa storia è così vera e atroce da lasciare l'orologio nascosto..."Il profeta" del film mi ha conquistato nella sua disperazione, nel suo rassegnarsi alle dure regole del gioco, nel cercare comunque di rimanere a galla, di resistere a questo mondo della prigionia così pieno di prove iniziatiche e doveri da assolvere. Questo è, infatti, un film sulla vita parallela del carcere. La vena non è polemica, nemmeno documentaristica. Il regista mette a nudo le emozioni di un uomo, di un giovane detenuto, che per aver soltanto malmenato un agente di polizia si ritrova coinvolto in reati molto più gravi, ma che gli servono a sopravvivere a questo genere di sistema. Bravissimo Adel Mancherif. Gran Premio della Giuria a Cannes.

lunedì 15 marzo 2010

The Aviator


"The Aviator" mi ha trasmesso un forte senso di fatica: si trascina troppo. Esagerato in tutto, tempi compresi rischia di rendere questo limite troppo pesante. La storia di per sè, mi ha troppo intrigato. Mi piace questa interpretazione della follia, così ben delineata e caratterizzata in modo così elegante. Inoltre l'idea dell'aviatore è una bella metafora della vita del folle: che parte dalla realtà per distaccarvisi. Inoltre i colori così poco realistici di alcune scene (che mi hanno ricordato molto "The Talented Mr. Replay") rendono molto bene l'idea di queste forti, fulgide, contrastanti emozioni che attraversano l'anima del decollatore. Peccato che la storia si sarebbe potuta concludere anche due sequenze prima, lasciando più fiato al pathos di quest'animo travagliato che, a mio parere, è già esplorato sotto ogni più sottile sfumatura, anche prima del processo. Continuo a sostenere che gli americani si sentano sempre obbligati a rappresentare una precisa scaletta di valori. Non si azzarderebbero mai a tralasciarne qualcuno inviando alla loro audience una lezione di vita incompresa.

ll dolce e l'amaro


Lo Cascio trascina con impeto e convinzione una storia poco sorretta dalla regia. Tutto è un pò opaco e macchiettistico, anche se la storia è avvincente e degna di un direttore più acuto. Su questo genere molto meglio "I cento passi", anche se la vita di quest'uomo che ricostruisce la propria storia alla luce dei fatti è alquanto avvincente. Il viaggio nella psiche di Saro porta ad una messa a fuoco dei valori predominanti nell'uomo della Sicilia. La famiglia viene al primo posto ed il tradimento viene punito. Forse un pò troppo da clichè i "nenta sacciu", ma lo spirito recitativo del protagonista riesce a contenere qualche sbavatura.

Un giorno perfetto


"Un giorno perfetto" è l'eufemismo di tante vite impossibili, ma di una in particolare: quella della stralunata quanto seducente Isabella Ferrari. La sua vita e le sue giornate sono attraversate da un'angoscia persistente, che è tipica di quelle persone che si sentono con le spalle al muro, all'ultimo gradino di una lunga scala che finisce su un baratro di problemi di ogni genere. Al primo posto una separazione coniugale difficile da gestire, per via di un marito (Valerio Mastandrea) geloso, violento quanto confuso e, soprattutto, affatto rassegnato. Il regista si impegna a descrivere ogni antro dell'anima di queste due figure, come di altre che si incrociano passandosi come tedofori la fiaccola della loro condizione di prigionieri della sofferenza e di vittime della società. Il tocco di Ozpetek in questo film è quasi invisibile. Ne rimane traccia solo nel particolare riguardo verso le figure femminili. Per il resto la regia è veramente scarna e lascia furbescamente spazio alle scene di violenza. Questo aspetto lascia scadere il film in una sorta di cronaca della società odierna, che strizza l'occhio al voyeurismo. La sola recitazione della Ferrari non basta a riscattare un film tanto truce quanto impersonale.

I giorni dell'abbandono


Margherita Buy, in questo film, adombra Zingaretti, dando prova di grande carisma e presenza scenica. La sua sofferenza, infatti, si distacca dalle scenate macchiettistiche che spesso le si è viste interpretare. Qui il suo personaggio, pur essendo sempre il solito, ha un forte spessore umano anche grazie alla regia di Roberto Faenza. La trama è ben costruita ed il limite tra incubo e realtà è sfiorato con maestria. Essenziale nella ridondanza delle emozioni che narra, questo film merita un vasto pubblico.

domenica 14 marzo 2010

Misery non deve morire


Se si guarda questo film in un uggioso pomeriggio del 2009, viene subito da chiedersi in che anno sia stato girato. Dai colori, dalla linearità dei colpi di scena, dalla ingenuità delle più estreme scene di violenza si capisce, infatti, come il cinema si sia evoluto anche solo negli ultimi 19 anni. Oggi storie come quella narrata in tale pellicola non sono più così improbabili come la costante tormenta di neve che avvolge la casa in cui tutto si svolge. Due anni fa una ragazza austriaca è sopravvissuta alla stessa disavventura del nostro scrittore. Si chiama Natasha Kampush. Chi non ne ha sentito parlare nell'estate di tre anni fa?La sua storia ha inondato le scarne pagine dei quotidiani estivi e la violenza psicologica che emerge dalla storia di questa ragazza ha, in effetti, qualcosa di perversamente poetico. Basta pensare al successo che "Misery non deve morire" ha avuto a suo tempo. Si tratta della stessa storia di Natasha in versione maschile. Sicuramente drammi di questo genere hanno un forte ascendente non solo sugli addetti ai lavori o studiosi della psiche, ma anche sui comuni lettori e spettatori: il rapporto diadico carnefice-vittima in un contesto di isolamento e sopravvivenza non scontato ha un suo fascino innato.

Nord


Il bianco della neve pervade questa commedia norvegese: un lungometraggio sul viaggio, a bordo di una motoslitta prima e su sci di fondo poi, di un uomo che è appena uscito dalla depressione, ancora alquanto alcolizzato. La meta è il nord del titolo, dove cerca di raggiungere la moglie ed il figlio dopo una crisi familiare dovuta alla sua malattia. Tutto si regge sull'idea bizzarra di un viaggio così tortuoso da affrontare con mezzi così realisticamente insufficienti. La trama va avanti attorniata da fenomeni alquanto sui generis come l'incapacità del protagonista di guardare la luce del sole. Questo disturbo lo costringe a passare molte ore con gli occhi bendati come una talpa ed al buio. Tale episodio ed altri danno l'impressione di stare assistendo ad una versione artica di "Alice nel Paese delle Meraviglie".

Manuale d'amore 2


Se il cinema ha talvolta il curioso dono di alleviarci la vita, raccontandocela come una brezza leggera, allora Manuale d'amore 2 assolve in pieno questa missione pacificatoria. Se si ha voglia di un pò di leggerezza e di coccole sdraiati in una poltrona col sedile di velluto, quale modo migliore di scegliere un film sull'amore? Il tono di voce di Bisio che parla ad una radio accompagna subito lo sprofondato spettatore i n questo clima da diario. La prima storia è di solito quella che rimane più sfocata nella memoria di chi esce dalla sala. In questo caso la bellezza della Bellucci strega con la sua perfetta freddezza, che ben si combina con la dolcezza della storia che la vede regina. Le altre storie sono racconti più pittoreschi e scendon a cascata verso la banalità. L'episodio finale con Verdone è troppo Verdoniano per essere godibile, ma la colonna sonora accompagna bene l'impasto e sembra di gustare una buonissima stecca di semplicissimo zucchero filato.

La Comunidad


Deve proprio essere iberica la tendenza registica di rappresentare situazioni così estreme, storie assurde e realistiche al contempo. Ci ha abituato, anzi viziato, a questo genere il grandissimo talento Pedro Almodovar che, dimostrando di possedere, meglio di chiunque altro, questo stile nel sangue rende impossibile il confronto con qualsiasi regista della sua stessa Spagna. Già, perchè a "La Comunidad" non manca apparentemente proprio nulla: le situazioni assurde, i problemi reali, ai quali le stesse alludono, persino gli attori (la bravissima Carmen Maura). Eppure si capisce fin dalla prima mezz'ora che non è Almodovar. Le situazioni, seppur nel loro presentarsi contorte, risultano troppo cinematograficamente prevedibili. Il tono è a tratti dilettantesco, come nella scena della rincorsa finale e nelle allegorie troppo da filosofia spicciola. Manca un pizzico di originalità, che rende più spendibile questo film, che allo stato dei fatti risulta un'omelia domenicale su come il danaro rovini la società. Ciò non toglie che la sceneggiatura regali a tratti delle genuine risate.

Non è un Paese per vecchi


Riprendendo lo stile on the road di Fargo, i fratelli Coen riescono a conquistare un ritmo che nel loro ultimo "Fratello dove sei?" si erano un pò persi per strada. Qui il fascino dello psicopatico folle incontra questioni di soldi nella solita, proverbiale, valigia. Ciò che rende unico questo film è il mix di generi che fonde assieme sublimemente...C'è il sarcasmo in ogni scena di sangue, c'è quel tono di beffa che avvolge ogni scena. C'è un pò del grande cinema, come le citazioni dei film di Sergio Lçeone, anche se qui i fucili si fanno con le canne delle tende e di Hitchcock. Forse il finale si trascina un pò troppo, ma il film rimane comunque un piccolo capolavoro.

Colpo d'occhio


"Colpo d'occhio" è il nome di una rivista d'arte, ma anche l'effetto che ogni artista vorrebbe provocare con le proprie opere. Qui il soggetto è apparentemente l'arte. Di fatto il film è un'abile apologia dei legami che si creano attorno al potere. Nonostante il trailer lasci credere che si tratti di una melensa storia d'amore, che ruota attorno ad un tradimento, questo film è ben altro. Parla di manipolazione, di invidia e di una vasta gamma di emozioni umane più o meno meschine e più o meno necessarie nella società odierna. Sergio Rubini è un uomo stravagante ed un regista innovativo quanto graffiante e questa storia camuffata da un trailera dir poco banalizzante è l'ennesima conferma di questo uso personale della macchina da presa. Tanto più la trama appare banale, tanto più non lo è.

Mine vaganti


La leggerezza della canzone "50.000 lacrime" ha conquistato la mia mente di spettatrice perchè rappresenta a pieno la leggerezza del tono con cui questa storia corale viene raccontata da Ferzan Ozpetek. Una famiglia tradizionale leccese viene travolta dalla confessione del figlio che dichiara a pranzo la propria omosessualità. L'equilibrio familiare viene messo alla prova, ma non si spezza. Nonostante ciò, la minaccia che il padre possa subire un ulteriore teatrale infarto costringe l'altro figlio Tommaso a tacere il proprio segreto. Forse la vera mina vagante di questo film è proprio la omosessualità che imperversa e mette radici nelle famiglie cosiddette normali, costringendole ad abituarvisi. Mentre la reazione di netto rifiuto del padre (Fantastichini) viene resa in maniera macchiettisitica, facendo credere che non sia "realistico" un tal modo di reagire, il resto della famiglia bene o male si assesta su questa nuova normalità, spostando il confine della definizione di quest'ultima. Per questo, alla fine, la vera cosa importante diventa non l'essere normale, ma l'essere felici ed essere sè stessi.

venerdì 12 marzo 2010

Uomini che odiano le donne


Mi precipito in sala senza nemmeno un fragile tentativo di arginare la mia morbosa dipendenza da Stieg Larsson e da tutte le sue creature, dirette o indirette. "Uomini che odiano le donne" ha un intreccio coinvolgente e personaggi che, pur ripescando nei luoghi comuni più arcani della narrazione, vengono abilmente reinterpretati. La pellicola sembra, in questo caso, un passaggio ovvio e scontato e, proprio per questo, altamente a rischio di banalità. Lisbeth Salander, invece, è lei, anche se il vistoso collare a più punte che porta indosso nelle prime scene, si perde già nelle successive, lasciandola struccata ed inanellata in espressioni e gesti leggermente più umani e meno intriganti di come il nostro Stieg ci aveva fatto credere. L'intrigante Bloomkvist ha un carisma notevole che sorregge il suo fascino nonostante l'assenza di qualche scena erotica sottratta al libro, senza sottovalutare che insegna finalmente al pubblico italiano come si pronuncia il suo cognome. Nei 153 minuti di proiezione, questo debordo temporale di mezz'ora, rispetto alle canoniche due ore, non lascia spazio a quel senso di eccesso di zelo narrativo che le ultime cento pagine del libro mi hanno trasmesso. Qualche anticipazione di troppo rispetto al secondo romanzo mi lascia, però, perplessa: il personaggio di Lisbeth si spoglia pian piano non solo del trucco, ma anche del suo mistero e il perchè questa ragazza giochi col fuoco viene "bruciato" in una scena un pò precoce.

Saturno Contro


La prima mezz'ora mi ha cerebralmente messo alla prova per assuefarmi all'idea di questa disomologazione totale delle coppie. In questo film decadono, infatti, tutte le regole tecniche fisse che recintano il concetto di famiglia. Tutti possono teoricamente stare con tutti. Si possono avere più uomini, rapporti occasionali bisex...insomma tutto, davvero TUTTO il possibile. Una volta entrata in questa ricostruzione della normalità, la storia mi ha trascinato nel suo crescendo di tensione emotiva. La trasgressione è diventata forza, e soprattutto, libertà. A me Ozpetek di solito sembra piuttosto surreale, artefatto, ma qui le scene sono davvero misurate seppur la storia sia debordante. Tutto è così sentito e pittoresco senza essere falso. Azzarderei a svelare quello che vuol dire Ozpetek con questo film, chiaramente cetrato sulla famiglia, ma credo proprio che con alcuni film valga la regola che vige in poesia: i versi non hanno bisogno di didascalie. Azzeccatissima e calda la colonna sonora, in cui compare la canzone di Gabriella Ferri "Remedios".

giovedì 11 marzo 2010

La bestia nel cuore


"La bestia nel cuore" è letteralmente come il titolo, una specie di acido che pervade come un vortice la vita di una donna apparentemente normale. Nel suo passato si nasconde una bestia, frutto della sua angoscia e di tante ambiguità. Tutto ciò si riconduce ad un fatto che riaffiora soltanto negli incubi, ma che si impadronisce delle sue speranze future e del suo presente. Stefania Rocca è la rappresentazione dell'anima della protagonista, cieca. Solo ammettendo la propria cecità ed attrezzandosi a farvi fronte si può vivere una vita normale. Sembra tale il senso di questa storia. Dal punto di vista psicanalitico è un pò improbabile che questa donna diventi vittima di angosce così ancestrali solo al momento della gravidanza. Quando si hanno subito violenze da un genitore è persino difficile avere un uomo, figurarsi sposarsi ed averci un figlio! A parte questo, la storia regge ed argomenta l'angoscia con una pluralità di metafore geniali, come quella finale delle acque che si rompono e vanno ad allagare il ricordo della violenza subita. In effetti a volte per vivere bisogna proprio fingersi ciechi pur nella consapevolezza di starsi ingannando da soli.

Giorni e nuvole


Che potere ha l'amore nella vita? Quanto siamo umanamente microscopici di fronte ai cataclismi della sorte? Questo non è un film sul precariato, ma sull'amore, su tutti quei momenti in cui bisogna ripartire da un guaio, ingoiandolo. Margherita Buy riesce ad essere meno macchietta del solito in questo personaggio di donna in crisi coniugale ed esistenziale ed Albanese si stacca dal suo clichè di attore comico e dimostra un grande carisma in questo ruolo interpretato. Il tema della perdita del lavoro poteva indurre in sbrodolature patetiche, invece anche le scene più prevedibili riescono a mantenere quel senso di umanità che le fa sembrare vere. Tenerissimo Albanese quando stringe la mano alla Buy nel finale: una scena di grande poesia.

Le conseguenze dell'amore


Silenzio e mistero avvolgono la sagoma di Toni Servillo. Comi in un inquietante puzzle i pezzi piano piano si ricompongono fino a ritrarre un uomo tutt'altro che inquietante, ma piuttosto inquietato. Se andassi oltre scardinerei il segreto attorno al quale questo film è amabilmente costruito. Mi limito quindi a sottolineare come ci voglia talento anche a recitare senza battute e ad esprimenre l'inespressività di un volto. Guardando questa pellicola ho imparato ad apprezzare il talento che ci vuole per non esprimere nulla. Toni Servillo in questo raggiunge il massimo riducendosi ad un manichino che trascina una valigia, in un eloquente non-luogo come un albergo di medio target. Tutto si gioca sul non raccontare, cioè sul contrario di ciò che il cinema in genere fa.

mercoledì 10 marzo 2010

Caos calmo


"Caos calmo" è la storia di un giro di boa, di un momento di nebbia, di scoraggiamento, ma anche di negazione. Il giardino che si rende teatro di questo stato psicologico è quello di fronte alla scuola della piccola Chiara. Tutto sembra così lento, ma nella mente del protagonista è in atto una vera e propria restrutturazione dei pezzi della propria vita, partendo dagli elenchi delle compagnie aeree. Questa sorta di monologo interiore non poteva avere migliore interprete di Nanni Moretti, che, in scene che scimmiottano la panchina di Forrest Gump, ricorda molto i monologhi del giocatore di pallanuoto di Palombella Rossa. Solo che in questo caso non si parla di ideali, ma di emozioni. Il protagonista raccoglie il proprio passato pezzo per pezzo accettando di accogliere carte ignote e di non scoprirne altre, come il carteggio tra la moglie e lo scrittore di libri per bambini. Nel masochismo della sua infantile negazione, cerca in tutti i modi di proteggersi come padre e come persona.

Il papà di Giovanna


Questo film è la catarsi del dolore che ognuno di noi porta custodito nel proprio passato. Nella propria famiglia, attraverso i ricordi, le inevitabili constatazioni e le speranze che nullo sia vero e tutto all'improvviso cambi. Silvio Orlando è un professore, ma, prima di tutto, un padre qualsiasi, che, come tutti, sogna una vita felice per la propria figlia, ma si spinge a tal punto di progettarla a tavolino. Questo eccessivo protezionismo, di cui un genitore può sentirsi almeno una volta, nella propria vita, incriminato non poteva avere interprete migliore dell'attore più goffo ed imperfetto del nostro cinema sempre più holliwoodiano: Silvio Orlando. Questi, con l'understatement che lo contraddistingue, da una prova di recitazione indubbiamente all'altezza della Coppa Volpi. La trama è il vissuto di una famiglia borghese incastonata e ben amalgamata con la storia dell'Italia mussoliniana. Per quanto la recitazione del protagonista troneggi su quella di qualsiasi altro attore, persino sulla stessa Rohrwacher, il film non fa perno solo su di lui, ma l'atmosfera che riesce a ricreare è il perfetto emblema del disastro interiore che la famiglia sta subendo. Pupi Avati mantiene l'amore per la propria città, ma riesce ad incastonarvi una storia più viva in cui non si ha quella solita sensazione che manchi il pezzo più importante.

MIo fratello è figlio unico


Una storia molto intensa, scritta in modo altamente equilibrato, dando il giusto peso, sia alla dimensione personale dei personaggi, sia a quella politica. In questo credo che consti il più grande vanto che si può accreditare a tale pellicola: il riuscire a mantenere quel senso di integrità dei personaggi, senza renderli delle macchiette. Penso che nemmeno il tanto decantato "La meglio gioventù" sia riuscito a fare questo. Accio è un figlio ed un giovane alla ricerca della propria strada e del proprio posto nel mondo e lo fa scontrando l'appartenenza ad una famiglia a quella ad un partito politico: due religioni in completa antitesi. Se, infatti, il fratello è comunista, Accio proprio per spirito di contestazione si iscrive all'MSI. Qui il suo mentore è Mario, venditore di tovaglie, mussolinianamente calvo, unico disposto a guidarlo invece di calpestarlo. Tale figura mi ha ricordato molto quella di Alfredo in "Nuovo Cinema Paradiso".

Ho trovato questo film, non solo di cronaca politica, il che lo avrebbe reso banale e ripetitivo, ma un'utile riflessione sul sottile confine tra il potere delle idee e quello dei sentimenti. Dove incomincia l'uno e dove finisce l'altro?

Mi ha anche ricordato la trama del "Giovane Holden" per via delle due storie parallele di due fratelli: l'uno apparentemente fortunato e poi dannato dal destino e l'altro che vive nell'ombra, ma riesce a percorrere la sua strada ricevendo dalla vita molte meno frustrazioni di quelle ricevute dal fratello.

Michael Clayton


Cupo e contorto da rasentare il manierismo. Non credo che un film per catturare lo spettatore debba per forza essere così poco lineare. Peccato perchè il regista è potenzialmente meritevole.

Cous cous


"Cous cous" è il ritratto nitido di una famiglia, dei suoi legami dolorosi e forti, delle piccole confidenze e degli screzi, delle liti quotidiane e delle eterne incomprensioni e, soprattutto, della gioia di condividere la vita in tutte le sue forme, a partire da una buona mangiata assieme. Questo il nucleo attorno al quale il regista fa ruotare una storia piccola, corale, dai tratti kusturichiani, che si intreccia con la cultura araba: quella della danza del ventre e del cous cous, per l'appunto. Il crescendo dell'intreccio dei sentimenti trova una sua estrema sintesi nella cena finale, in cui il senso della solidarietà e della collaborazione incrocia l'immancabilità degli imprevisti. Come in molti racconti corali, l'ultima scena ha un ruolo catartico: libera tutta l'energia che lo spettatore ha visto accumulato, restituendo allo spettatore un senso di magia unico.

Caramel


Tanti personaggi si intrecciano in una storia soprattutto femminile in cui il caramello emblema della goduria è qui inteso nel seducente ruolo di strumento di depilazione. La storia utilizza molto questo simbolo per collegare tra loro vicende che, alla fine, risultano essere poco gustose, contraddicendo il titolo. Per questo motivo posso confessare di avere sonnecchiato per la maggior parte delle scene, in attesa di quel qualcosa che mi facesse sobbalzare dal mio torpore. Ciò non è accaduto. Non escludo di avere intercettato questa pellicola con un umore non consono, ma credo anche che i colori fossero un pò troppo cupi ed alcune scene monotone. Il film si trascina monocorde senza infamia, nè gloria.

martedì 9 marzo 2010

Million dollar baby


La vita attraverso un ring. Le emozioni sono strazianti e poi esaltanti. I poli opposti della gloria e della umiliazione della fama e dell'abbandono si concentrano in modo un pò troppo stereotipato in questo film. Se in America si parla spesso di politically correct, questa "ragazza da un milione di dollari" è il ritratto di una vita "ethically correct", decisamente. Il sogno di gloria che è in tutti noi, qui si materializza nella metafora del ring in cui emerge l'aspetto meno umano della vita. Per questa centratura simbolica temevo non mi sarebbe piaciuta questa rappresentazione dell'esistenza. La cruenza dello sport per me va, infatti, contro l'istinto della vita stesso e e trovo macabro anche questo tipo di divertimento. Inoltre, essendo un film a tema, temevo un eccessivo tecnicismo linguistico, invece, i dialoghi riescono nella loro essenziale asciuttezza e fare un perfetto slalom tra i due principali rischi, senza inforcare nemmeno uno di questi paletti. Non si scade nel sentimentalismo perchè i dialoghi sono serrati ed essenziali: gloria ed abbandono sono raccontati dalle emozioni, tanto che il rapporto tra il pugile e l'allenatore è palesemente allusivo al rapporto genitore-figlio. Quello che di questo film non perdono è, in conclusione, l'ingordigia della sua storia, tipico dello stile hollywoodiano, pretende di raccontare la vita in ogni suo aspetto: nel bene e nel male, come se ogni film dovesse essere una lezione di vita completa ed esaustiva. Eppure anche per questo è un film da gustare. Nel bene e nel male.

Espiazione


Questo film trasmette un forte senso di lentezza, non approfondisce bene la figura dell'espiatrice e si perde in banali ricostruzioni d'epoca. Ha proprio l'aria di una bella storia mal resa sullo schermo. Come se le immagini si appesantissero di questi scenari di guerra, senza riuscire a trasmettere quel senso di colpa che solo le parole dell'espiatrice alla fine del film riesce perlomeno ad abbozzare. Forse ero partita un pò troppo convinta che si trattasse di un bel film...

Follia


"Follia" è probabilmente un bel libro, visionario e travolgente. Le immagini in cui il film lo ha tradotto lo rendono più concreto, ma anche più riduttivo. Alla fine emergono molti stereotipi che popolano questa storia: il cattivo psichiatra manipolatore, la passione folle, la borghesia squallida e banale. Tutto questo rende la storia molto più assurda di quanto le pagine trasmettono. Ciò che è estremo nelle parole, se non maestralmente trasposto nelle immagini, può risultare patetico.

lunedì 8 marzo 2010

Welcome


Welcome (premio LUX per il cinema 2009) è uno sguardo verso la realtà dei clandestini. Cerca di vedere per una volta il mondo dal loro punto di vista. Si sceglie, per fare questo, una storia disperata di amore e sopravvivenza, che si scontra con la realtà quotidiana di chi non si trova ad essere in questa disperata condizione. Lascia riflettere su quei grandi drammi che tali persone sono costretti ad affrontare con le sole proprie forze, mentre il mondo li relega alla deriva della società.La storia è molto piccola, uno zoom veramente particolare su un personaggio disperato che trova nel suo maestro di nuoto un nido in cui proteggersi dalla crudele relatà francese, in cui si sente tuttaltro che benvenuto. Molto ben curato ed emozionante il rapporto che si crea tra i due e che riesce ad arricchire entrambe. Il maestro di nuoto rappresenta la sua unica speranza per un progetto per tutti impossibile: attraversare la Manica a nuoto per rivedere la propria amata. Su questo sogno si aggrappa tutta la storia e tutta la speranza del protagonista. Da vedere.

Little Miss Sunshine


Il cinismo beffardo e camuffato di American Beauty trova una sua seconda chance espressiva in questa pellicola, anche se in questo caso la maschera non sono gli eterei petali di rose, ma un'ironia graffiante. Quando ci si imbatte nel pulmino sgangherato non si può negare il ricordo del meraviglioso film di Lynch "Una storia vera". Anche questa è una storia vera, sgangherata come il mezzo che traina i personaggi, che in alcuni momenti sembrano anche un pò troppo macchiette, ma il brillante gioco di battute esalta questo senso aleggiante di realtà esageratamente vera e, quindi, surreale. Carino, divertente, forse in alcuni momenti troppo demagogico.

Juno


Semplice, innocente, impaurito e curioso: è questo lo sguardo di Juno, la liceale protagonista, costretta a portare su di sè il peso di un nome ingombrante. Le emozioni che una ragazza esplora quando scopre di essere madre sono attraversate dalle perplessità e dalle angosce, scoprendo lati positivi e negativi di una notizia prematura. "Juno" potrebbe essere una storia drammatica, ma ciò che rende questa pellicola originale è proprio il tono strafottente e leggero, che ricorda a tratti American Beauty. Non c'è nulla di irrecuperabile e Juno cerca in tutti i modi di garantire al proprio bambino il futuro più rassicurante possibile nelle mani di genitori adottivi. Così il suo "fagiolo" viene immaginato e coccolato nei pensieri della protagonista, che, trovando un compromesso per la propria maternità, in realtà dimostra un grande spirito procreatore seppur nella sua semplicità. Questo tono così poco drammatico intenerisce e commuove e dà alla storia quella marcia in più che la separa da una semplice storia di genere.

domenica 7 marzo 2010

Burn after reading


I registi (come definire quest'originalissima coppia di fratelli?) cavalcano l'onda di Non è un Paese per vecchi, restituendo un'immagine della società americana attuale in cui tutto è possibile: tutte le coppie si tradiscono, i mariti coltivano l'artigianato dei giochetti erotici nelle cantine delle loro immacolate detached houses ed un set di 5 interventi di chirurgia estetica può essere il motivo per una cassiera di una palestra per argagnare un ricatto politico che mette in mezzo la CIA.
Tra volti noti messi in discussione proprio nel loro essere divi e battute, come al solito, dal ritmo serrato, anche questo ennesimo piccolo capolavoro dei fratelli Coen si contraddistingue per la sapienza con cui riesce a mettere assieme sangue e sarcasmo senza mai sfiorare, nemmeno lontanamente il kitsch. Il genere ormai lo si conosce, è quello con cui i due registi hanno solcato la strada del cinema indipendente americano con "Fargo", per approdare direttamente alla acclamazione hollywoodiana. Come il Woody Allen di "Celebrities" qui i registi portano in scena divi in una versione autoironica, che li rende molto più intriganti, mentre la trama si perde nei meandri di legami più assurdi che improbabili. Il film finisce sulla panoramica di google hearth, lasciando lo spettatore ancora desideroso di un pò di spettacolo, ma se il cinema è come il cibo, è vero che bisogna alzarsi quando si ha ancora più fame.

La sconosciuta


Truculento e pieno di sofferenza, "La sconosciuta" esplora la solitudine con musiche ossessive come i pensieri che affollano una mente disperata. La storia si modifica pian piano e lo zoom si sposta fino ad illuminare aspetti sempre più drammatici e arcani di questa sconosciuta ucraina, di cui non si sa nemmeno il vero nome. Se Tornatore voleva sconvolgere ce l'ha fatta benissimo. Questa storia è toccante quanto estrema e crudelmente vera.
Ho fatto fatica a vedere "La sconosciuta", francamente sono stata sollevata dal cielo stellato che ti offre il cinema all'aperto: un senso si liberazione in questo incalzare di scene di miseria d'animo.
Non è un film per stare tranquilli. Se ne esce sbattuti da una brutta storia, orchestrata magistralmente.

Shutter Island


L'isola di Shutter Island nasconde tanti segreti...il più mascroscopico rimane nascosto fino all'ultimo quarto d'ora. La mente del protagonista ci trascina coi suoi (s)ragionamenti guadagnandosi la nostra fiducia per più di due ore, lasciandoci conoscere una verità che fino all'ultimo crediamo attendibile, nonostante qualche sbandamento onirico in qua ed in là. Martin Scorsese monta e smonta come un antico orologiaio questa realtà, in maniera talmente tecnica da relegare la suspence a aspetti più che altro stilistici, che peraltro ricordano a più tratti grandi autori come Hitchcock e il Kubrick di Shining. Alla fine ci si domanda se basti tutto questo per trasmettere emozioni.

Alice in Wonderland


Sarà lei la vera Alice o no? Fino alla fine del film questa domanda tortura la mente dell'unica Alice del film, giusta o sbagliata che sia. Nel frattempo il suo cammino verso la propria verità/identità/salvezza è stravolto da un turbinio di personaggi parzialmente tratti dalla favola di Carol. Durante questo cammino dantesco verso l'uscita dal fosso Alice impara a conoscersi e a misurare le proprie forze. Raccontata così la trama del film sembra promettente, ma il suo connubio con le nuove tecnologie digitali non produce l'effetto desiderato. Non bastano gli occhi verdi e i capelli rossi sparati per aria a rendere il cappellaio matto un personaggio così carismatico da reggere l'intero intreccio. Molta enfasi viene però concessa a questa figura, dimenticando che non bastano gli effetti speciali a riempire un film. La malinconia ed il candore dell'omonimo cartone della Disney rimane, così, ineguagliato. Lo stato d'animo di Alice rimane in secondo piano e la storia viene interamente riscritta in funzione dei canoni del cinema americano: il buono, il cattivo, la sfida finale. Dal punto di vista delle immagini rimane un film da vedere, ma non c'è da aspettarsi nulla di quel di più che Tim Burton è sempre riuscito a trasmettere rendendolo un regista notevole.

giovedì 4 marzo 2010

Invictus


Non era facile per Clint Eastwood, dopo un film come Gran Torino, una piccola grande storia, ammaliare lo spettatore con un film che parte già da una una storia grande, anzi dalla Storia. Forse per questo il regista preferisce zoomare su un particolare della vita di Mandela: la vittoria del torneo di rugby da parte della squadra sudafricana, compiendo un gesto che poteva essere provocatorio ed invece scade in una metafora facile e banale. Nonostante questo il film scorre senza intoppi, come tante altre pellicole biografiche americane, senza rinunciare a trionfalismi patriottici e ralenti a effetto. Tanta retorica può essere tollerabile in un regista americano, ma non nel più grande regista americano. L'attesa che questa pellicola ha mietuto crea negli spettatori, infatti, l'aspettativa di qualcosa di più e di diverso, mentre "Invictus" rimane una buona e "corretta" narrazione, troppo patriottica per essere documentaristica e troppo superficiale per dirsi romanzata. Va, comunque, concesso ad Eastwood il merito di aver voluto raccontare una grande storia antiamericana.

mercoledì 3 marzo 2010

Presentazione al mondo della rete

Non mi sono mai presentata ad un pubblico invisibile...Il motivo che mi spinge ad aprire questo mio primo blog è che mi piacerebbe condividere le mie opinioni cinematografiche su tutto ciò che c'è in circolazione in questo momento. Vado al cinema due volte a settimana, ma se gli impegni della vita reale me lo consentissero passerei su quelle magiche poltrone parecchie serate della mia vita. Il cinema per me ha sempre rappresentato tutto ciò cui la realtà non può ambire, il segreto che c'è dietro ogni cosa.