sabato 21 dicembre 2013

Philomena

La ressa alla biglietteria a -10 minuti dall'inizio del film è similie a quella per assistere ad un cinepanettone, ma nella sala simil d'essai della Bologna bene, in questo ultimo sabato prenatalizio la folla è in fila per "Philomena". In un momento in cui la Chiesa sta vivendo un momento di rivincita per la sua reputazione, grazie al rivoluzionario Papa Francesco, l'ultimo film di Frears pone ancora una volta l'accento su quanto sia ancora  nascosto sotto al tappeto.
Un giornalista ed una storia da raccontare, un protagonista della narrazione ed un main character nella vita, che è alla scoperta della propria verità. Si tratta di due punti di vista intriganti per raccontare la stessa storia, accomunati da un solo vero scopo: scoprire la verità. Tanti sono stati i film verità sulle maternità nascoste e nagate, sull'oppressione della Chiesa e la violenza inflitta col termine peccato. Frears trasforma una trama ad un passo dalla banalità, in un originale opera d'arte, grazie ad uno script dai colpi di scena improvvisi. Esiste perdono senza vendetta? Il modesto personaggio di Philomena, che è vissuta in un mondo di piccole cose, ma non ha paura di scoprire, non ha paura di nulla e non ha pregiudizi. La sua interpretazione non si arresta alle rughe ed alle espressioni già viste in "The Queen", dalla celeberrima vincitrice del Premio Oscar Judi Dench. Il suo personaggio è interprete di un viaggio nella morale cattolica, una sua rivisitazione o assuefazione. Philomena è il viaggio verso la propria redenzione, un ricongiungersi alla vita, dandole senso, nonostante sia necessario accettare la morte. E poi è il rapporto tra un figlio che non compare se non in foto ed una madre che se lo costruisce mentalmente come un perfetto 3D. Ne indaga ogni dettaglio. Il ruolo della protagonista è quello di un'investigatore coraggioso, un'Agatha Christie di sè stessa, ed il giornalista non è che una spalla che la aiuta a mettere assieme i pezzi di questo enorme puzzle dai pezzi apparentemente incompatibili.
Le conclusioni non sono scontate...la vita di Anthony/Michael è stata migliore o peggiore di quella che sarebbe stata se non fosse stato adottato? Anthony/Michael è mai stato felice? Cosa ha pensato di sua madre senza mai conoscerla? Una babilonia di possibilità si rompe chiassosamente attraverso il silenzio della protagonista e le menti degli spettatori, mentre l'impatto emotivo è forte. Chiunque si può sentire un pò genitore e un pò orfano entrando nello sguardo di Judi Dench in macchina verso l'incontro con l'ultima carta che ha da giocarsi per scoprire suo figlio.

sabato 14 dicembre 2013

Still life

"Still life", due parole, tre sillabe che il mio traduttore automatico mentale aveva reso con "ancora vita" o "semplicemente vita". Entrambe le espressioni rappresentavano per me le aspettative che mi ero costruita del film: frammenti di vita, di una vita semplice. Per libera associazione avevo subito pensato al film a "As soon as it gets" di Woody Allen. 
Così quando in un freddo pomeriggio prenatalizio entro in una sala d'essai, dimenticata negli angoli di un mio passato così stranamente recente, mi imbatto in una vita dalla concezione opposta. La traduzione di still life è infatti "natura morta". Dientro la semplicità e sobrietà del volto surreale del protagonista, che dentro il lampo di un secondo mi ricorda il personaggio paffuto di "Up!", sta il vuoto ed il silenzio di una vita che sa di pranzi con cibi in scatola ed ordinarie fette di toast, guardando solitariamente il muro di fronte. Giorno dopo giorno si consuma la vita di John May, isolato dal mondo delle relazioni, se non da quelle coi defunti, anch'essi abbandonati. Se si dovesse trovare un job title al mestiere di Jonh May eufemisticamente direi che il suo compito era curare l'anagrafe dei defunti, procacciando un pubblico alle loro esequie. John May ha un viso lunare e con questo pallore mortuario cerca nella morte il senso della vita degli altri e, quindi della propria. Cerca la comunicazione nella comunione delle anime durante l'estremo rito del funerale, quando in realtà è alla ricerca del proprio ruolo comunicativo, della propria storia. Nella sua ricerca casuale, John May incontra tante storie e costruisce la propria vita con il collage accurato delle mezze parole che riesce a catturare di bocca alle persone che non vogliono parlare del defunto in questione. Un macabro Sherlock Holmes? In realtà John May non deve scoprire nulla, solo riparare. 
Il suo luogo di lavoro è un ufficio pervaso di bianco, il non colore più travolgente e freddo, anche perchè rimanda al colore della neve. Ha un telefono a disposizione, con il quale contatta le persone che avrebbero potuto conoscere il defunto di turno. Se la cornetta è il suo interlocutore, la morte è un diritto da tutelare. Esco dalla sala pensando che "Still life" è una natura tutt'altro che morta, è un inno alla dignità della vita. E' l'articolo 36 della Costituzione. Sono quelli che salgono sulle fabbriche perchè perdono il lavoro. E poi sono tutti quelli che non hanno il coraggio di vivere e nemmeno di morire. 
"Still life" è un film che ti torce un pugnale nello stomaco. Parla alla pancia prima che al cuore. Solo quando si tocca alla pancia si riesce a dire "non è giusto", prima ancora di dire "è vero".

giovedì 12 dicembre 2013

Il pescatore di sogni

Chi ha detto che "Il pescatore di sogni" è un bel film? Mi affretto ad acquistarlo fremendo dalla curiosità, ma quello in cui mi imbatto  è un film sospeso nel tempo, senza che riesca a comunicare alcun senso di magia. Il surrealismo narrativo non fa che appesantire la trama, tratta da un già impegnativo romanzo. Il tema della pesca del salmone nello Yemen si trasforma in una melensa e grossolanamente delineata storia d' amore. Nonostante questo la fotografia è di buon livello. L' elemento che domina l' intera pellicola rimane purtroppo la lentezza narrativa ed una sceneggiatura tratta dal romanzo british che fa acqua da tutte le parti.

mercoledì 11 dicembre 2013

Blue Jasmine

Ogni volta che entro in sala per una pellicola di Woody Allen ne cerco il volto terribilmente buffo ed il suo eloquio tipicamente forgiato di termini come prosaico, faresaico ecc.. Non incrociando il suo sguardo sullo schermo sento il suo mondo interiore diffondersi nell' aria che respirano le protagoniste. Jasmine e sua sorella sono le due anime di Woody, ambizione, smarrimento esistenziale e valoriale l' una e nevrosi quotidiane l' altra. Alta borghesia e proletariato. Come in molte sue pellicole la sceneggiatura è al limite con il genere teatrale. Le battute sono argute ed i personaggi profondi. La "grande bellezza" della vita mondana di Jasmine perde sempre più la già melliflua consistenza iniziale. Il suo personaggio si costruisce e destruttura al contempo, man mano che i minuti passano.Questo processo di narrazione (psic)analitica va di pari passo con lo svelarsi della verità sulla vita di Jasmine. Uno scenario noir si prospetta per lo spettatore. Dopo aver costruito una filmografia che spazia da " La rosa purpurea del Cairo"a "Match point", con " Blue Jasmine" Woody Allen fonde nevrosi, mistero e doppio sé.