martedì 29 marzo 2011

Il marchese del grillo


In una serata di latenza televisiva di programmi cerebralmente utili, rispolvero dal mio pc un film che ha fatto storia o per lo meno s'è fatto notare. "Il marchese del grillo" è una pellicola che ai miei occhi di oggi è sembrata così lontano nel tempo, ovviamente non solo come scenografia, ma anche come genere di commedia. Non sembra, infatti, che siano passati solo trent'anni o, per dirla in un altro modo, che in questo tempo il cinema si sia potuto evolvere così tanto. Oggi Monicelli non c'è più, morto suicida a 95 anni, ma la sua mente ha prodotto delle vere lezioni di cinematografia come questa. Nonostante "Il marchese del grillo" sia un film che, come ho appena detto, appare subito datato, in realtà in esso si ritrovano le fondamenta della commedia italiana attuale, quella che sta cercando di farsi strada nonostante un confronto così difficile. Ad ogni modo credo che "Il marchese del grillo" non sarebbe quello che è se non fosse stato interpretato dal re della commedia all'italiana: Alberto Sordi. Vale la pena di vedere questa pellicola anche solo per alcune battute e quest'aria vivaiola e ridanciana del marchese non è altro che un'abile translitterazione dell' humor che Sordi esprime esplosivamente in ogni sua pellicola. Trovo che ad un primo approccio l'idea del film in costume possa apparire tronfia, ma poi si trasforma in un perfetto gioco e casca a pennello sul personaggio di Sordi. Non è facile non scrivere delle banalità quando ci si confronta con un film, con un regista e con un attore di questa portata, su cui sono stati gettati fiumi di inchiostro e digitati miliardi di tasti. La mia impressione nel rivederlo dopo tanti anni è di un rinnovato stupore.

sabato 26 marzo 2011

Silvio Forever


"Silvio Forever" è un documentario che si pone su un continuum con "Draquila". Sembra, infatti, che in questi ultimissimi due anni stia emergendo sempre più la necessità di reinventare un vecchissimo genere per uno scopo non più di informazione, ma di informazione controcorrente. In entrambi i casi per raggiungere il grande pubblico e soprattutto la distribuzione in sala si punta su una efficacia comunicativa diversa. L'ironia è alla base di tutto. Si stravolge, dunque, il registro comunicativo classico documentaristico, forse per rendere anche piu dissacranti i materiali che vengono tirati fuori.
Già perchè in "Silvio Forever" si tratta di un lavoro soprattutto di montaggio. Un'attenta analisi e poi sintesi di questo fenomeno sociale che è esploso negli anni '90. La vita del Presidente del Consiglio viene scandagliata fin dalla nascita, grazie anche all'abile voce narrante di Neri Marcorè, nei panni del Premier. Vediamo così una tristissima carrellata dell'ascesa al potere dell'uomo con più conflitti d'interesse d'Italia.
Ovviamente l'intento del documentario non è più solo quello di documentare, ma quello di aprire gli occhi e formulare, seppur nel modo più accorto e argomentato, un giudizio di valore. Il documentario nell'Italia di oggi assume, dunque, un ruolo diverso, per necessità.
In questa nuova veste ed autoattribuendosi questa nuova missione sociale, devo dire che il documentario "Silvio Forever" riesce a gonfie vele. Dal titolo, al montaggio, alla scelta delle interviste e delle dichiarazioni, tutto tende a fare emergere il personaggio più markettaro che l'Italia potesse conoscere. Un re Sole dei media, che finora, nonostante tutto, e riuscito a gestire le proprie contraddizioni.

giovedì 24 marzo 2011

Dylan Dog


Il fallimento dell'intento di questo film, rendere sul grande schermo il fascino del famoso personaggio di Tiziano Sclavi, credo che in parte possa non essere biasimato. L'impresa era, infatti, abbastanza titanica ed i linguaggi comunicativi utilizzati così agli antipodi. In particolare non era facile trasformare lo charme del bianco e nero in un film a colori ed ugualmente insensato sarebbe stato fare un film non a colori con un personaggio così poco demodè...

Seppur io non sia una grande conoscitrice del personaggio di Dylan Dog, avendo letto solo qualche suo fumetto, già nella scelta dell'attore ho cominciato a riservare forti dubbi. Appena ho visto Brandon Routh non ho avuto alcun sospetto che potesse essere lui il Dylan Dog del film. E' difficile che un personaggio per tanto solo immaginato possa essere consenzientemente riconosciuto dagli spettatori quando acquisisce vesti umane. Io in particolare me lo immaginavo più tenebroso, ambiguo, maledetto: una bellezza meno regolare e canonica.

A parte questi commenti di "incarnazione", il film non riesce a rendere assolutamente quel clima un pò grottesco, ma al contempo minaccioso del fumetto. La storia è molto banale e banalizzata nel senso che si potevano introdurre elementi di suspance in più senza puntare tutto sulla gara al mostro più grande e minaccioso. Non basta, infine, fare dire un paio di volte all'attore la celebre esclamazione"Giuda ballerino" per disegnargli addosso i caratteri del vero Dylan Dog, che rimane, a questo punto, indiscussamente quello disegnato da Tiziano Sclavi.

martedì 22 marzo 2011

Le stelle inquiete


Le stelle inquiete è un film che mi ha molto ricordato "Primo amore" di Matteo Garrone. Anche lì la trama era una analisi e proiezione sullo schermo dei meccanismi psichici che sottendono l'anoressia. La vera stella inquieta di questo film è la protagonista, una intellettuale francese vergine ed idealista, che rifiuta il cibo facendone l'emblema del benessere di una società. Partendo dal dato di fatto che questa trama si fonda su una storia vera, è interessante vedere come la sua rappresentazione si distingua per il tentativo di dare una parallela visione sociale del problema. Vi è dunque una duplice messa in scena della malattia: oltre che personale, collettiva e politica. Siamo nel '41 e la guerra in Francia oltre che la emergente ideologia comunista divengono i contenitori sociali in cui riversare questa nuova rappresentazione della malattia che diventa così una sorta di male comune. Proprio un limite ed una virtù di questo film sono il rimanere ancorati ad una visione un pò troppo astratta del problema, proponendo un film che ha poco i piedi per terra ed a tratti sembra assurdo o meglio isolato da come realmente gira il mondo. Proprio come la campagna in cui il film è ambientato.

domenica 20 marzo 2011

Beyond


Per chi ha visto e si è entusiasmato con la trilogia "Uomini che odiano le donne" non è facile affrontare la visione di Noomi Rapace in un ruolo diverso da quella della mitica Lisbeth Salander. Nonostante l'attrice svedese continui adi interpretare il ruolo di una donna dal vissuto misterioso e truce, ho vissuto personalmente come una sorta di tradimento il fatto che quel volto impersoni un altro ruolo. Questo è il controaltare che può accogliere gli attori che hanno interpretato egregiamente dei personaggi.
A parte questo, il film all'inizio sembra abbastanza pietoso nel ritrarre una situazione disperata ed il personaggio della Rapace sembra così poco indagato che tutto sembra ridursi ad una sagra della commiserazione. Il ritmo è anch'esso, fino alla prima ora, un pò singhiozzante. Nella seconda parte del film, invece, la regia si riscatta, rendendo la trama più "piena" e credibile ed anche i tempi migliorano. Resta, comunque, un film estremamente triste e questo sentimento che comunica non è ripagato da un equo talento registico.

sabato 19 marzo 2011

Sorelle mai


Questa pellicola è tipicamente di Bellocchio per alcuni aspetti visivi. Spicca, infatti, la cupezza delle immagini in cui le ombre giocano un ruolo da protagoniste. In questo caso, nonostante tale costante, sono comunque rimasta stupita dalle immagini. Più nello specifico è la loro definizione che mi ha colpita. In alcune scene, infatti, le immagini sono simili a quelle dei filmini dei nostri genitori che vengono tirati fuori nei convivi familiari. Sembrano sfocate ed i colori sbiaditi. Eppure nel film quelle scene si riferiscono ad anni correnti e non a cosiddetti "episodi della memoria". Non sono riuscita a farmi una ragione di questa modalità tecnica se non come un modo per dare un'atmosfera di maggiore intimità a questa storia.
Proprio la trama rappresenta poi un altro elemento anomalo. Già altre volte Bellocchio aveva proposto storie talmente intime e con così pochi personaggi coinvolti da sembrare senza uno sfondo, un panorama sociale, un pò come succede tipicamente nei film di Pupi Avati. In questo caso, però , oltre a questo, sembra esserci un intento più documentaristico che puramente narrativo. Sia le prime scene che la struttura stessa del film, scandita chiaramente in episodi temporalmente consecutivi, depistano inizialmente lo spettatore che crede di trovarsi di fronte ad una carrellata di dieci anni della nostra Italia.

Nonostante l'estrema lentezza della trama, l'enigmaticità degli effetti visivi, credo che la scena finale alquanto magrittiana rappresenti un vero tocco di classe per un film che non mi ha convinto fin dall'inizio.

martedì 15 marzo 2011

Carissima me


Spesso la bellissima, ma inespressiva Sophie Marceau si presta ad interpretare ruoli così piatti e molto caratterizzati in termini macchiettistici. In questo film recita in un modo veramente insipido, ma questo tutto sommato si intona bene con un film che si attiene ad un genere più che surreale assurdo. Sembra, infatti, che negli ultimi anni in Francia sembri addirittura segno di elevazione intellettuale proporre trame "vintage" in cui un malinconico per non dire disperato rimpianto della infanzia diviene pretesto di sceneggiature assurde. Il modello ispiratore è indubbiamente "Il favoloso mondo di Amelie" che ha aperto la pista di un filone tragico. Se la pellicola madre aveva un suo perchè ciò che ne è, a mio parere, scaturito è un genere veramente pietoso. "Carissima me" è un film che già dalla trama si presenta male: una donna in carriera solo lavoro si incontra con il suo passato quando riceve una busta con dentro una serie di lettere che da piccola aveva scritto alla sè stessa da adulta. Una tal storia si commenta da sè e si intuiscono fin dalla prima scena gli sviluppi finali. Tutto è così piatto. I personaggi sono poco credibili così come poco credibili sono i loro tratti che sembrano delineati proprio da un bambino per come sono stilizzati. Tutto va a rotoli, non c'è un elemento che funzioni. Solo 95 minuti di proiezione e la percezione che si ha è che si stiano sforando le 2 ore.

domenica 13 marzo 2011

I ragazzi stanno bene


"I ragazzi stanno bene" è il film che ha "mandato in overbooking" le sale dei cinema bolognesi in questo week-end di pioggia. In genere è facile riempire le sale in questa città del nord animata da gelide domeniche di nebbia. Eppure stavolta sono convinta che le sale sarebbero state comunque piene anche se fossimo stati in un week-end di esplosiva primavera. Ecco la parola giusta che cercavo: esplosivo. "I ragazzi stanno bene" è un film dotato di un vulcanico potere. E' la vita stessa che si esprime in tutte le sue forme; la prima e più importante è la libertà."I ragazzi stanno bene" racconta, infatti, la libertà di essere lesbiche e felici, di vivere questa condizione come un modo legittimo e normale di abitare la vita di coppia e i rapporti familiari in maniera libera. E' la libertà di avere una famiglia normale, con dei figli nati normalmente con la donazione di sperma. Ed in tutto questo il messaggio che arriva è che stanno tutti bene. I figli in particolare stanno bene. Vivono la loro adolescenza in maniera normale e la loro scoperta della sessualità non è per nulla problematica, ma espressione delle comuni perplessità e curiosità dei figli delle nuove generazioni.

Se questo film esprima un'utopia o una speranza o ancora una realtà non sono in grado di interpretarlo. Mi viene solo da commentare banalmente che lo tsunami Obama sia ancora in azione e susciti correnti di novità nell'aria degli US.

lunedì 7 marzo 2011

The fighter


"The fighter" è un film a dir poco deludente. Non sono una grande cultrice del genere, ma posso affermare con certezza che sia "The wrestler" che "Million dollar baby" erano riusciti a raccontare il mondo della boxe comunicando ben più consistenti emozioni. Ciò che mi meraviglia è che a livello di trama "The fighter" non è un film così sprovvisto di elementi interessanti: il rapporto tra i due fratelli poteva essere un pretesto molto meglio sfruttato. La trama scivola, invece, verso una rappresentazione piatta e banale, in cui ognuno recita la propria parte, senza alcun brivido accessorio. Tutto è così ben definito, ma al contempo piatto: la madre soffocante, il fratello fallito che vive attraverso il protagonista, la fidanzata semplice. Vedendo questo film mi sono resa conto di come non basta che il regista abbia chiaro in mente a che gioco deve giocare ciascun personaggio, perchè il film comunichi qualcosa.

Nonostante la presenza nel cast di Christian Bale, nemmeno la recitazione spicca. Tutto scorre in maniera estremamente lenta e prevedibile.

domenica 6 marzo 2011

Manuale d'amore 3

Da sempre nutro una sfegatata preferenza per il cinema italiano, che, per me, rappresenta un genere vero e proprio che non ha rivali nè in Europa, nè oltreoceano. La commedia all'italiana riesce a trasmettere una serenità ed un puro senso della bellezza che nemmeno il più riuscito film americano può eguagliare.

Partendo da queste premesse noto con grande rammarico come oggi il nostro cinema sia protagonista di una discesa vertiginosa nel livello di produzione. Manuale d'amore 3 ne è la prova. Non basta un titolo fortunato per fare un film altrettanto riuscito. Inoltre trovo che questa formula ad episodi sia ormai stata abbastanza cavalcata ed abusata da poter anche invocare una tregua. Manuale d'amore 3 è un film senza una idea originale che sia una. Nonostante il cast di stelle, che va a scomodare addirittura celebrità hollywoodiane del calibro di De Niro, il film vola d'un basso da rasentare lo schianto e la catastrofe totale. La sceneggiatura è ormai depauperata dall'usura: ormai non si sa più che cosa raccontare. Gli attori stessi sembrano addirittura annoiati e poco convinti. Persino il re della comicità italiana, Carlo Verdone seppur calato nel proprio personaggio che è poi quello che più gli è congeniale, annoia e non entusiasma come in genere è solito fare.

sabato 5 marzo 2011

La vita facile


Cosa c'è di più rilassante dopo una giornata di quotidiani pensieri e preoccupazioni di buttarsi su una comodissima poltrona a luci totalmente spente e pregustarsi un "Domenico Procacci presenta" comparire a caratteri cubitali sullo schermo?

Se poi come in questo caso la scenografia è da mozzafiato, ritraendo una Africa che tanto tranquillizzante non era mai apparsa, il gioco è fatto. Il quarantenne Stefano Accorsi festeggia il compleanno della maturità interpretando un medico senza frontiere dedito a cause umanitarie sublimi, che però nasconde nel passato un tradimento verso il suo miglior amico. La trama sorge sul tema umanitario e potrebbe morire anche lì tale è la bellezza dei luoghi, ma probabilmente l'aspetto estetico è solo un trampolino di lancio per fare decollare una storia molto più occidentale di quanto si creda. Il triangolo amoroso tra Vittoria Puccini, Accorsi e Favino è reso ancor più intrigante dal paragone con una dimensione di vita così distante dal mondo della "vita facile" della Roma bene. Valori sublimi e superficiali si intrecciano con maestria e la trama apparentemente piatta mostra di avere qualcosa da svelare di inatteso fino all'ultima scena.

venerdì 4 marzo 2011

Il gioiellino


"Il gioiellino" è un film cronaca che vuole raccontare la storia del crac della Parmalat. Il tono utilizzato è giornalistico: ci si limita a raccontare i fatti e non a raccontarli, lasciando tutto nel mistero. Quale migliore attore per narrare questa situazione ambigua ed indecifrabile se non Toni Servillo? Il ragioniere che egli interpreta è, infatti, probabilmente l'unico che "sa" e che spera fino all'ultimo che le cose possano ancora rimettersi in sesto, perlomeno nella apparenza.

La storia della Parmalat prevede una forte importanza della immagine di facciata, tanto da pensare di poter sostituire la menzogna con la realtà. Il film è, inoltre pervaso da un forte oscurità nelle scene e la mancanza della luce è proprio emblematica della situazione in cui versa la società.

"Il gioiellino" è dello stesso regista de "La ragazza del lago": probabilmente un pò meno televisivo di quest'ultima opera prima, ma in alcune scene ancora sembra esserci un tono ancora poco raffinatamente cinematografico.

giovedì 3 marzo 2011

127 ore


Dopo il claustrofobico "Buried", che ero riuscita ad evitare tramite un efficiente servizio di informazione preventiva, "127 ore" cavalca il filone delle tragedie solitarie. Stavolta, però, non mi ero fatta l'idea di una storia così disperata. Avevo colto solo il lato della storia che comunica libertà, cioè l'esplorazione solitaria dello Utah da parte di un alpinista americano: Aron Ralston. Non avevo, invece, compreso che il vero focus del film riguarda l'incidente del protagonista che lo mette a diretto contatto con l'idea realistica della propria morte. Aron cade in una rientranza profondissima ed il suo braccio rimane schiacciato e prigioniero di una roccia.

Prova a liberarsi da solo, ma la sua sola forza è insufficiente. Mette in atto le migliori strategie per sollevare il macigno. La propria calma e stabilità d'animo è enorme ed è il sentimento di maggior fascino che emerge dalla storia. Nessuo sa che Aron è lì e lui a questo ci pensa, così come pensa ai suoi genitori che non ha salutato prima di andare via, alla sua infanzia, ai propri ricordi di giovane ragazzo. Tutte queste immagini si alternano a razionalissimi pensieri su come uscire da quella situazione, finchè Aron, arrivato alla 127a ora, capisce che l'unico modo per uscire vivo di lì è tagliarsi il braccio.

L'attore candidato al premio Oscar è convincentissimo e la fotografia di ciò che vede ed immagina il protagonista è spettacolare. La libertà che comunicano gli ampi spazi cozza con lo stato del protagonista, che ormai è convinto di non uscire più da quel buco.