sabato 16 febbraio 2013

Tutto su mia madre


Dopo 13 anni dalla sua uscita nelle sale, Tutto su mia madre, continua ad evocare nello spettatore quell'antico spiazzamento, che provai quando lo vidi in sala. Coloro eccentrici, parenti di egocentrici, ovvero del trionfo greco della commedia e della tragedia al contempo. Tutto fa scena, tutto è bivalente, ma non per questo equivocabile: può esserci speranza di riscatto nella morte, come morte in certe forme di degrado della vita. Nulla è bianco o nero: le sfumature sono ridondanti e la loro abbondanza segna l'innovazione visiva più grande che Almodovar ha apportato al cinema contemporaneo. Tutto è trionfalmente sobrio, pulito e sincero, ma amplificato come da un megafono invisibile. Rivedendo il film ne colgo maggiormente la drammaticità, ma a 13 anni di distanza rivedo la scena in cui Escobar viene investito e continuo a trovarla una invenzione visiva unica, che vale da sola il prezzo del biglietto.Cos'è il cinema se non un riflesso di qualcosa? Non per niente ad Almodovar è riconosciuto il tributo di aver plasmato un genere l' Almodrama, unico per il sapere creare una salda invisibile linea sottile tra la morte e la vita.

lunedì 11 febbraio 2013

Hugo cabret

"Hugo Cabret" è un visonario e surreale film sulla magia, in cui gli effetti visivi trionfano sul contenuto piuttosto demagogico, ma riescono comunque a regalare momenti unici. La versione 3 D del film ha un potenziale unico che difficilmente riesce ad essere ripreso dalla pellicola 2D, perciò ci si domanda se abbia senso un tale sfoggio di immagini che in realtà non riesco a raggiungere il culmine del loro incanto. La trama non conquista se no n per la sua semplicità ed a volte il tono naif di narrazione sembra scimmiottare  il mondo fatato quanto inesistente de "Il favoloso mondo di Amelie". L'aspetto tecnico pur dominante sembra lasciare vincere una sorta di innocenza della visione.

martedì 5 febbraio 2013

Lincoln


Dopo aver ottenuto la gloria con pellicole che hanno fatto la storia del cinema americano e mondiale (E.T., Salvate il soldato Ryan, Indiana Jones, Jurassic Park), il regista ritorna al genere storico, ma stavolta senza fantasia. “Lincoln” non ha, infatti, l’invettiva di altri film come “Amistad”. Rimane strozzato da un registro che si stanzia a metà tra il genere biografico e quello storico. Ad emergere non è infatti il personaggio del famoso presidente che ha liberato l’America dalla schiavitù dei neri, né la guerra civile americana, piuttosto le dinamiche politiche che sottendono a questa grande rivoluzione politica, sociale e culturale.
Nell’era della digitalizzazione stupisce vedere come la storia dei popoli sia stata costruita a suon di biglietti scritti a mano e trasportati da una parte all’altra dei Paesi a cavallo. Tutte le dinamiche del sistema politico dell’epoca sono gestiti in modo così rudimentale rispetto agli strumenti di cui il potere dispone oggi, tanto da far risaltare ancor più all’occhio la risonanza delle rivoluzioni che propugnano. Se, infatti, le decisioni politiche viaggiano sul filo di votazioni a voce, alzate di mano e biglietti scritti e portati a mano, la loro essenza è rivoluzionaria. Si tratta della costituzione di regole di civiltà fondamentali per l’umanità. L’abolizione della schiavitù narrata in “Lincoln” è, infatti, una rivoluzione storica nella rappresentazione sociale di una razza intera.
Se con "Amistad" e "Salvate il soldato Ryan", Spielberg era riuscito ad affrancarsi dal trionfalismo americano, raccontando la storia attraverso piccole storie, con "Lincoln" il regista non riesce ad evitare di sprofondare in un registro narrativo autocontemplativo fondato sull'esaltazione del senso di patria degli USA.
Se la pellicola soffre un pò troppo di claustrofobia narrativa, vista la fissità scenografica, la figura di Lincoln spicca per la brillante interpretazione del grande attore inglese Daniel Day-Lewis, che si rende di nuovo interprete di grandi ruoli legati al mutamento delle società.

venerdì 1 febbraio 2013

Django - Unchained

Non è mai facile scrivere in merito ai film di Tarantino: sembra sempre che il linguaggio verbale non contenga vocaboli talmente originali e provocatori da trasmettere quello che il regista comunica ogni volta al pubblico in sala.
Come definire Django? 
Sicuramente non esiste una frase che lo possa incasellare. Posso, però, dire che tra la beffa e la celebrazione esistono mille sfumature e Tarantino si diverte ad attraversale tutte con una potenza di sintesi visiva estrema. Il genere in oggetto è il western, quello che ha reso celebri i più grandi registi e attori della storia del cinema americano e che racconta un pezzo della storia degli Stati Uniti.
Django è il nome di un ragazzo di colore talmente annichilito dalla frustrazione di tutto ciò che ha visto, sopportato e subito da schiavo, da non avere più paura di niente. 
Unendo farsa e celebrazione in stile Shrek, ma in versione splatter, Tarantino racconta una storia darwiniana sulla lotta alla sopravvivenza, dove le ipotesi lombrosiane che hanno piegato la dignità di una razza vengono smentite dalla voglia di riscatto sociale e prima ancora esistenziale di Django. Il protagonista è si un nero, ma è intelligente più di tanti bianchi ed il film è la celebrazione della sua escalation verso l'emancipazione. La scena in cui il protagonista riesce a giocare le poche carte che ha per tirarsi fuori dalla gabbia in cui era incatenato mentre gli altri schiavi rimangono lì a sopportare la loro condizione è da antologia. 
Tutto nel film è armonico: dai dialoghi alla scenografia alla colonna sonora. L'accuratezza verso ogni dettaglio è maniacalmente autocelebrativa, tanto da risultare pregio e limite del film.