domenica 23 marzo 2014

Lei

"Lei" è la calda voce femminile di Samantha, il sistema operativo IOS che fa da segretaria a Theodore, emblema dell'uomo ferito dalle donne e incapace di lanciarsi in una relazione coinvolgente. Il senso di claustrofobia relazionale mi ha pervaso in modo disturbante per tutta la metaforica trama, tramite la quale il regista gioca continuamente sull'accentuazione di ossimori, come quello tra solitudine e soffocamento amoroso. Samantha è "her" e non "it": il regista marca l'identità persona- oggetto tanto da dedicarvi il titolo del film. La sala del cinema era piena e sono sicura che ogni spettatore ha visto un film diverso. "Lei" racconta infatti un intreccio talmente al di sopra della realtà da fungere da passepartout per lo spettatore, diventando la chiave adatta ad aprire ogni cuore. Spike Jonze tira in ballo temi esistenziali come il futuro delle relazioni, la paura di innamorarsi e l'essenza dell'amore. Per questo è come trovarsi davanti ad una macchia del Rorschach, ogni persona vi proietta e vede la parte di sè che gli è più vicina. Universale e futuribile, "Lei" racconta l'essenza vulnerabile dell'uomo di oggi, di domani, ma soprattutto di quello sempre. Può essere visto come un'ipotesi dello sviluppo delle relazioni intime tramite i nuovi sistemi operativi che interagiscono con l'uomo o la elegante rappresentazione scenica della paura di vivere. Al contempo può essere un'intensa storia d'amore in cui l'assenza di contatto fisico non è che l'espressione dell'immensità del sentimento. La luce trascendente di alcune scene, così come alcune situazioni a contorno della trama principale regalano qualche chance a questa ultima interpretazione. Che cos'è un rapporto di coppia e che cosa significa amare? Il film bombarda letteralmente lo spettatore di stimoli ambigui che lo conducono nei meandri delle più personali riflessioni. Una di queste deriva dal proporre la contrapposizione tra l'assenza di schemi di vita nella relazione ed il loro ruolo al contempo rassicurante e soffocante. Sicuramente "Lei" è un film che spiazza: una storia che può essere interpretata seguendo vari rivoli interpretativi, ciascuno dei quali è già stato singolarmente espresso da altre pellicole. Rimane unica la sua capacità di sintesi condensata nell'invenzione di una relazione di questa fattispecie. Provocatorio e conservativo al contempo, gode di una fotografia dai colori eterei approfondita dall'intensità dell'interpretazione di Joaquin Phoenix. 

giovedì 20 marzo 2014

Allacciate le cinture

"Allacciate le cinture, turbolenze in arrivo" sono le parole infantilmente pronunciate dagli unici bambini dell'ultimo omonimo film di Ozpetek nell'ultimo fotogramma dei titoli di coda. Come un pacco che viene lentamente scartato e svela la sua essenza solo alla fine, questa frase sintetizza l'interpretazione che il celebre regista di origine turca propone della vita. Mantenendo il parallelismo con il decollo, il ritmo del film vi è molto simile. La prima parte soffre di una partenza lenta e sembra volersi perdere nell'apparente vuoto del teatro della vita, fatto di piccole cose apparentemente prive di importanza. Una volta che il motore è caldo e l'inerzia è stata vinta, Ozpetek vira bruscamente verso un registro comunicativo diametralmente opposto, andando al di là della copertina del libro esistenziale. Ne racconta l'essenza mediante l'assenza dando sfogo al vero paradosso della vita stessa. Ci accorgiamo di essere vivi solo quando abbiamo una viva percezione della morte. In questo nuovo scenario tutti i pezzi del puzzle trovano un loro incastro, i personaggi cambiano coralmente e si amalgamano in un equilibrio testimoniato dalle dinamiche relazionali che si svelano più solide del previsto. Il messaggio è fotograficamente accompagnato dalla trovata di fare cambiare repentinamente il colore ed il taglio dei capelli della triade di donne apparentemente sole. I rapporti si svelano nella loro autenticità e gli attori (Kasia Smutniak in primis) nella loro capacità di cambiare plasticamente registro comunicativo in maniera improvvisa.
Il regista si dimostra padrone della meccanica filmica smontando e rimontando i pezzi di questo apparato scenico e lo fa in maniera pulita. La vera cifra del film di Ozpetek, a cui è sempre piaciuto raccontare la vita nella sua pienezza (vedi ad esempio "Saturno contro" e "Mine Vaganti"), è proprio il saper riprendere quota nonostante le turbolenze, chiudendo la parentesi drammatica con la stessa dimestichezza con cui la apre. Con una scena che ricorda "Sliding Doors" e la genialità romana del "deus ex machina" Ozpetek trasforma in un incrocio fisico l'incontro della vita con la morte e riesce a risintonizzare la trama verso un finale che ne celebra la profondità acquisita mediante la sofferenza e ne contempla la bellezza. Il tutto trova una splendida sintesi fotografica nella rappresentazione del mare d'estate, che si agita d'inverno e torna improvvisamente di nuovo calmo e dai colori turgidi. Si avverte il piacere del regista di raccontare e poi sintetizzare in maniera così efficace gli stati d'animo intesi come stagioni della vita, così come la loro reversibilità. I capelli delle protagoniste cambiano coralmente colore e taglio come in un gioco scenico dall'impronta teatrale, una volta che la parentesi drammatica si conclude. Analogo meccanismo di condensazione che rafforza l'intento di concludere la narrazione del dramma è il sogno della protagonista. Il non colore bianco cancella la sofferenza come una spugna e riporta ad un presente carico di senso.
Che la crisi esistenziale non sia altro che un incubo da cui si esce repentinamente e con una improvvisa consapevolezza della forza interiore? Il tutto è incorniciato da una ricerca estetica molto forte in cui la bellezza è intesa come provocazione ed ostentazione. Anche in questo caso il filo con le altre pellicole di Ozpetek è ben riconoscibile. 

domenica 2 marzo 2014

12 anni schiavo

"Lo sguardo di Solomon Northup è senza prospettiva", questo pensiero mi attraversa come un fulmine i pensieri tormentati dalla visione del film più violento che il cinema abbia mai realizzato. La composizione fotografica del primo piano del protagonista lo vede guardare verso una direzione spezzata, mentre il resto dello schermo gli si pone alle spalle. Solomon si rivolge così al pubblico. Penso e francamente spero sia l'ultima scena del film, mentre lo "spettacolo" continua. 
Molte scene sono esasperanti per la violenza utilizzata, tanto da farmi chiedere più volte quanto sia arte tutto questo. Se il fine del regista è quello di emozionare e "scuotere" l'obiettivo è centrato. Se l'obiettivo è quello escatologico di pulire con due ore di pellicola la coscienza degli americani, il ruolo del film risulta ingombrante, ma formulato in maniera efficace. Se si pensa, invece, al cinema come luogo di espressione artistica ho un forte dubbio su quanto ciò che ho visto possa chiamarsi arte. Piuttosto è una bella lezione di storia, sicuramente più incisiva ed efficace di tante pagine scritte.
La schiavitù esiste ancora, "12 anni schiavo" ne racconta un capitolo importante. La costruzione del film non è il suo punto forte se se ne considera la creatività, ma lo è nella densificazione della tensione che genera. Si passa, attraverso tempi volutamente lenti e travagliati, dalla  violazione estrema della dignità umana a livello fisico a quella psicologica. Man mano che i minuti passano si è sempre più portati a riflettere sulla perdita della speranza, piuttosto che su quanto il protagonista stia subendo ora. Si entra nei pensieri di gente, che canta mentre raccoglie il cotone e dice di non sapere nè leggere nè scrivere, per evitare di fare una fine ancora peggiore da quella che presagisce. In questo silenzio ho molto rivisto il film completamente diverso per il tema trattato "Lo scafandro e la farfalla". Il regista riesce, infatti, a raccontare senza molte parole, ma con una fotografia all'altezza del ruolo accordatole, i pensieri del protagonista mediante le immagini. 
Il ruolo di Brad Pitt, deus ex machina riduce in maniera facile il ruolo del regista nel risolvere la tensione generata. Una polarizzazione di "bene" e "male" tutto sommato accettabile se si pensa che la differenza del comportamento dei "padroni" contro gli schiavi non è trascurata. Steve McQueen non scivola su questo aspetto a mio avviso importante. Riesce, anzi, a raccontare con limpidezza come gli schiavi diventassero oggetti su cui scaricare le proprie frustrazioni. 
Se il cinema è inteso come mass media il film rappresenta un'espressione forte e riuscita, se il suo ruolo è quello di comunicare, sensibilizzare ed educare "12 anni schiavo" lo fa, ma non ditemi che questa è arte.