domenica 30 maggio 2010

Le quattro volte


Una capra partorisce in diretta il suo piccolo, la natura selvaggia ed un pò cupa della Calabria domina la scena come una autorevole regina. Tutti i comuni canoni del cinema vengono provocatoriamente, ma, ancor più, sperimentalmente, violati. Il silenzio regna sovrano. I soli rumori della natura raccontano la realtà. Bisogna fare scorrere qualche sequenza per sintonizzarsi su questa dirompente modalità comunicativa. Si rimane inizialmente spiazzati dall'assenza di protagonisti, dialoghi e da una trama così poco evidente. Una volta adattati al prodotto dell'infrazione di tutte queste implicite regole, si scopre l'alta poesia di un racconto a metà strada col genere documentaristico.

La regina dei castelli di carta


Il fascino della nostra eroina Lisbeth sprigiona ancora un'energia tale da intrigare lo spettatore, ma questa terzo proseguo della saga larssoniana ha un fiato ancora più corto del secondo. L'intrigo psicologico lascia sempre più spazio alla spy story che fa perdere alla trama molto del suo fascino e, soprattutto, del suo ritmo. Viene da pensare se ci interessi davvero sapere cosa è successo a Lisbeth Salander e perchè c'è qualcuno che la vuole evidentemente fare fuori. Tante volte l'eccessivo zelo nel dare spiegazioni e nello zoomare sui personaggi non restituisce il fascino attesso dalle aspettative nel frattempo createsi. Per il resto, a fronte di molti passaggi cavillosi e noiosi, che occupano, ahimè, i tre quarti del film, lo svolgimento finale del processo risveglia l'attenzione, ricentrando la trama sulla vera trovata letteraria della saga: Lisbeth Salander.

sabato 29 maggio 2010

Sex and the City 2


Nel 1993 avevo dieci anni e ricordo con chiarezza le decine di volte che ho visto il film per bambini "Hocus Pocus". Cos'aveva di particolare quella pellicola per me? Sicuramente ero assogettata dal fascino di Sarah Jessica Parker nella veste di strega. Non ricordo bene la trama, so solo che la credibilità dell'attrice nel ruolo monopolizzava la mia attenzione. Dopo averla persa di vista per ben 17 anni, mi imbatto nuovamente nel suo volto spigoloso introducendomi coraggiosamente e soprattutto curiosamente nel cinema Medica Palace di Bologna per la prima giornata di proiezione di "Sex and the City 2". Una certa allergia alla originaria serie televisiva mi ci ha tenuta per anni lontana, ma quando un successo diventa così dirompente vengo sopravvalsa dalla curiosità. Mi faccio strada tra una coltre di ragazze tra i 20 ed i 30 rigorosamente piastrate, mechate, ovviamente truccate, con un tacco medio di 12 cm. Quel che ne deduco dalla visione è che la strega è rimasta, ma si è evoluta, trovando una forma più socialmente accettata, ma ugualmente aggressiva. Sarah Jessica Parker incarna, adesso, l'icona della donna oggetto, provocatoriamente, insensatamente e, soprattutto, immeritatamente ricca. Dal fisico scultorio degusta assieme alle sue amiche, provenienti dallo stesso amoralissimo habitat, aperitivi a go go indossando in casa abiti da notte degli Oscar. Il pubblico applaude le gesta della strega versione anni 2000 e il coinvolgimento della platea mi lascia perplessa. Se il cinema è fatto per sognare, è davvero questo il sogno delle ragazze di oggi? Di diventare sculettanti amiche da cocktail? Sento che sto scadendo nel moralismo...meglio chiuderla qui...

lunedì 24 maggio 2010

Copia conforme


In parte dialogo filosofico sul valore delle copie rispetto agli originali, nell'arte e poi nella vita, questo film è banalmente contestualizzato in una oleografica toscana, piena di tutti i luoghi comuni che all'estero ci attribuiscono. Questa specie di saggio della bellezza subisce una lenta metamorfosi, che costituisce quasi un colpo di scena riscattando il senso del ritmo, fino a quel punto molto carente, quando i due protagonisti passano frase dopo frase dal Lei al tu...Si scopre un nuovo scenario inaspettato in cui le idee lasciano il posto ai sentimenti. Binoche brava, ma non così entusiasmante da meritare la Palma a Cannes.

venerdì 21 maggio 2010

La nostra vita


Si entra in sala con qualche certa aspettativa quando il film in questione è l'unico in gara al festival di Cannes per l'annata 2010. La grande sala bolognese dell'Arlecchino è quasi al completo per il suo primo spettacolo serale del primo giorno di proiezione. E se si considera la leggerezza primaverile che si respira in una finalmente tiepida serata in città, non è da poco. Il film inizia e subito il carisma recitativo di Elio Germano colonizza la mia attenzione sui suoi sentimenti. Sui sentimenti di un italiano oggi in Italia. Un italiano operaio, allevato nell'ignoranza e nella invidia del potere che significa avere e quindi essere. Tutto questo viene rappresentato talmente in maniera realistica che il potere comunicativo di ciò che si vede riesce a superare la percezione di didascalismo che in qua e in là germoglia durante la narrazione. Qualche anno fa una canzonetta sanremese recitava "in Italia si sta male, in Italia si sta bene, in Italia si sta male, si sta meglio, si sta peggio, qui si sta come si sta..." e proprio questo sembra il vero nodo della riflessione di Luchetti. Siamo felici oggi in Italia? Cos'è che ci rende felici? Il berlusconismo dilagante incombe senza neppur essere mai nominato.

martedì 18 maggio 2010

Manolete


Entro in sala dopo aver già letto qualche critica non brillante, ma speranzosa nello spirito latino dei registi spagnoli. Fino ad oggi mi hanno sempre regalato, Almodovar a parte, scene colorate, montaggi vivaci, il tutto mixato con una certa spontaneità d'animo che in "Manolete" non ho proprio riscontrato. Sarà l'eccezione che conferma la regola? Sta di fatto che, nonostante la trama sia di quelle "ad alto potenziale cinematografico", il regista Menno Meyies sembra giocarsi male molte carte. A cominciare dai personaggi, che, seppur interpretati da attori di tutto riguardo come Penelope Cruz e Adrien Brody, risultano mal tratteggiati e melodrammaticamente vuoti. Inoltre lo sbizzarrirsi della narrazione nell'accavallamento continuo di piani temporali diversi, rende il succedersi degli eventi veramente poco comprensibile. Il sentimento che lega i due amanti convince veramente poco e nemmeno il fascino popolare della corrida risulta percepibile.

domenica 16 maggio 2010

Robin Hood


148 minuti all'americana. 28 in più rispetto alla regola generale delle due ore. Probabilmente poteva essere tagliata qualche scena all'inizio. E' che ormai debordare dalla durata convenzionale sembra essere un vezzo dei grandi registi made in USA (e non solo...) che vogliono far ricadere maggiore attenzione sul loro ultimo presunto capolavoro. Questa puntualizzazione tecnica è prevedibile per chi, leggendomi, ormai sa che credo che difficilmente un film oltre le due ore riesca a tenere il ritmo. A parte questo, la nuova versione di "Robin Hood" firmata da Ridley Scott si distingue per l'utilizzo di una strategia sulla cresta dell'onda nella produzione americana d'annata: fare leva sul piano temporale, giocando, in questo caso, d'anticipo. Lo si è già visto in "Alice in the Wonderland", in cui la Alice che lo spettatore si trova davanti è un pò più grande di quanto ci si ricordasse. Del resto si tratta di un escamotage che consente di rendere più facile l'originalità di narrazioni altrimenti trite e ritrite. In questo caso Robin Longstride non è ancora il fuorilegge Robin Hood. Eppure i valori che contraddistinguono la storia originaria non sono traditi e Ridley Scott si sbizzarrisce in una pittoresca ricostruzione dell'Inghilterra del '200. La teatralità degli scontri che costituiscono buona parte della pellicola mi ha fatto riflettere sui diversi valori che contraddistinguevano i popoli di una volta. La guerra in particolar modo era vissuta in maniera così inevitabile. Il mettere a rischio la propria vita per difendere patriotticamente la propria terra sembra ancora più incomprensibile se si pensa che non c'erano per contro governi democratici e tutelatori dei diritti dei combattenti. Inoltre rispetto ad oggi è da notare come una volta era il re stesso che scendeva in campo, per combattere e difendere la propria terra, rischiando la propria vita. Viene da sorridere se per un momento si prova a sostituire la faccia di Re Giovanni con quella di Berlusconi.

venerdì 14 maggio 2010

Adam

Quando si guarda un film come "Adam" si capisce il perchè "Forrest Gump" abbia avuto così tanto successo. Non è assolutamente facile parlare dell' "anormalità" presunta o reale riuscendo a narrarla dal di dentro, facendo sentire allo spettatore come il "diverso" in questione si senta veramente: come viva, come veda il mondo e come vi si muova. In questo caso la malattia bersaglio è la sindrome di Asperger, a me nota grazie alla lettura del superlativo romanzo di Mark Haddon "Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte". A differenza del romanzo, però, in questa pellicola il risultato finale è piuttosto artefatto e patetico. Rimane ammirevole il tentativo del regista di dare spazio ad una patologia in realtà non così nota.

lunedì 10 maggio 2010

Due vite per caso


Questa opera prima del regista italiano Alessandro Aronadio è una versione italica di "Sliding doors". Le due strade che la vita di Matteo può intraprendere sono macchinosamente messe in scena alternando i vari piani narrativi in una continuità temporale. Sicuramente, oltre che una riflessione sulla casualità del destino, il regista vuole proporne una sul ruolo delle forze dell'arma in Italia. Nonostante il caso Cucchi sia nato sicuramente in una fase successiva a quella delle riprese, è proprio a quello che sono volti i miei pensieri nell'osservare la palese critica dell'uso della violenza nello Stato Italiano. Nel complesso il film presenta una serie di spunti di riflessione che sembrano montati assieme in maniera ancora poco armonica ed un pò impressionistica.

domenica 9 maggio 2010

Draquila


Credo di ritenermi tra quella, purtoppo, minoranza di persone che si domandano come mai in Italia negli ultimi anni berlusconiani succedano tutte queste catastrofi, che rendono la Protezione Civile, una volta relegata a pochissime emergenze, una vera protagonista della politica italiana. Sabina Guzzanti riesce in questo "documentario di parte" a fornire una tesi, argomentata in maniera divulgativa, che supporta la veridicità di questo sospetto. Montando abilmente, e con un ritmo serrato da non far sembrare il tutto noioso, libere confessioni di politici, sindacalisti, superstiti, ammiratori e detrattori di Berlusconi, Sabina Guzzanti restituisce agli Italiani un quadro inedito, ma intuibile per chi ormai è abituato a leggere tra le righe, di come sono andate le cose a L'Aquila. Sconcertante è il risultato finale. Sconcertante è pensare che queste verità altre debbano raggiungere un pubblico autoselezionato di persone che entrano in un cinema conoscendo già le tendenze politiche della regista, senza potere accedere a mezzi di diffusione più ampi. Questi consentirebbero ad un qualsiasi berlusconiano (ce ne sono tanti in Italia, si sa) di imbattersi in suoni, parole diverse dalle solite frasi dogmatiche che si sentono in giro. Abile sintesi di quello che la regista vuole comunicare con questo documentario è nelle parole dell'intervistato finale che parla di una "dittatura della merda", che non sembra preoccupare come una vera dittatura, perchè non c'è la tortura. Sembra, infatti, che debba passare da un momento all'altro, invece non passerà.

mercoledì 5 maggio 2010

Gli amori folli


Surreale, romantico, lento, dalla sceneggiatura affinata e debordante: non poteva non essere un film di Resnais. Chi non vorrebbe a 86 anni riuscira ancora a dirigere delle piccole chicche come questa? La follia del titolo dilaga un pò in tutto il film, nonostante in realtà alcuni passaggi come l'incipit risultanto eccellentemente studiati e poco "folli". La seduzione che la sequenza iniziale esercita sullo spettatore sembra seguire le regole del cinema di una volta. Tutto sembra un pò datato nello stile e nell'ambientazione, ma ciò non conferisce alla storia una connotazione negativa, arricchendola,invece, di fascino. Gli attori, poi, sono perfettamente calati nel ruolo e rendono questa storia così poco reale ed un pò onirica, stranamente così reale.

lunedì 3 maggio 2010

Departures


Lo spirito con cui entro in sala per vedere "Departures" non è esattamente quello tra i più convinti. Dopo, infatti, che il mio sguardo si è imbattuto per più volte nelle quattro o addirittura cinque stelle attribuite dalla critica e dalla stampa italiana a questa pellicola giapponese, l'acquisto del biglietto avviene più che altro per una sorta di "dovere morale". Nonostante sia sempre stata intimidita dalla lentezza dei film nipponici e nonostante non abbia ricordo cosciente di almeno un film orientale che non mi abbia terribilmente annoiato, per la prima volta con "Departures" si verifica un'eccezione. Sarà forse perchè in questa pellicola il tema dominante è la morte ed essa non ha tempo per sua definizione universale. Finisce, così, per lo sposarsi benissimo con l'andamento ritmico dei film orientali, senza subire in questo obiezioni da parte di alcun' altra cultura del nostro pianeta. Piuttosto la trama e lo spirito del film, a tratti anche ironico, tende a non focalizzarsi su una visione religiosa della morte in particolare, ma l'obiettivo è di dipingerla il più possibile come parte della vita, come esperienza costruttiva e fonte di rituali universali nella loro particolarietà.

Vincitore del Premio Oscar nel 2008 come Miglior Film Straniero e Premio dell'audience all'ultimo Far East Festival di Udine 2010.

sabato 1 maggio 2010

Cosa voglio di più


Il film inizia con una emblematica scena di un parto. Quella che sta nascendo, in realtà, è la società di oggi nelle sue felicità e infelicità. La società del precariato, delle istituzioni, delle responsabilità impaurisce i due amanti che vogliono qualcosa di più e sono proprio alla ricerca l'uno nell'altro di questo "qualcosa". La loro storia inizia per il sesso. Le varie prolungate scene che ritraggono i corpi di Favino e della Rohrwacher avvinghiati non sono in realtà gratuite, ma espressione della rabbia che essi provano verso una società piatta, lobotomizzata dai media e anestetizzata dalle responsabilità. Oltre ad essere un film che delinea magistralmente il tema del tradimento, "Cosa voglio di più" si distingue da altre pellicole sul tema, per una riflessione sociologica più rara da incontrare. Il tutto è sorretto dalle affinate interpretazioni di Favino e della Rohrwacher.