sabato 21 dicembre 2013

Philomena

La ressa alla biglietteria a -10 minuti dall'inizio del film è similie a quella per assistere ad un cinepanettone, ma nella sala simil d'essai della Bologna bene, in questo ultimo sabato prenatalizio la folla è in fila per "Philomena". In un momento in cui la Chiesa sta vivendo un momento di rivincita per la sua reputazione, grazie al rivoluzionario Papa Francesco, l'ultimo film di Frears pone ancora una volta l'accento su quanto sia ancora  nascosto sotto al tappeto.
Un giornalista ed una storia da raccontare, un protagonista della narrazione ed un main character nella vita, che è alla scoperta della propria verità. Si tratta di due punti di vista intriganti per raccontare la stessa storia, accomunati da un solo vero scopo: scoprire la verità. Tanti sono stati i film verità sulle maternità nascoste e nagate, sull'oppressione della Chiesa e la violenza inflitta col termine peccato. Frears trasforma una trama ad un passo dalla banalità, in un originale opera d'arte, grazie ad uno script dai colpi di scena improvvisi. Esiste perdono senza vendetta? Il modesto personaggio di Philomena, che è vissuta in un mondo di piccole cose, ma non ha paura di scoprire, non ha paura di nulla e non ha pregiudizi. La sua interpretazione non si arresta alle rughe ed alle espressioni già viste in "The Queen", dalla celeberrima vincitrice del Premio Oscar Judi Dench. Il suo personaggio è interprete di un viaggio nella morale cattolica, una sua rivisitazione o assuefazione. Philomena è il viaggio verso la propria redenzione, un ricongiungersi alla vita, dandole senso, nonostante sia necessario accettare la morte. E poi è il rapporto tra un figlio che non compare se non in foto ed una madre che se lo costruisce mentalmente come un perfetto 3D. Ne indaga ogni dettaglio. Il ruolo della protagonista è quello di un'investigatore coraggioso, un'Agatha Christie di sè stessa, ed il giornalista non è che una spalla che la aiuta a mettere assieme i pezzi di questo enorme puzzle dai pezzi apparentemente incompatibili.
Le conclusioni non sono scontate...la vita di Anthony/Michael è stata migliore o peggiore di quella che sarebbe stata se non fosse stato adottato? Anthony/Michael è mai stato felice? Cosa ha pensato di sua madre senza mai conoscerla? Una babilonia di possibilità si rompe chiassosamente attraverso il silenzio della protagonista e le menti degli spettatori, mentre l'impatto emotivo è forte. Chiunque si può sentire un pò genitore e un pò orfano entrando nello sguardo di Judi Dench in macchina verso l'incontro con l'ultima carta che ha da giocarsi per scoprire suo figlio.

sabato 14 dicembre 2013

Still life

"Still life", due parole, tre sillabe che il mio traduttore automatico mentale aveva reso con "ancora vita" o "semplicemente vita". Entrambe le espressioni rappresentavano per me le aspettative che mi ero costruita del film: frammenti di vita, di una vita semplice. Per libera associazione avevo subito pensato al film a "As soon as it gets" di Woody Allen. 
Così quando in un freddo pomeriggio prenatalizio entro in una sala d'essai, dimenticata negli angoli di un mio passato così stranamente recente, mi imbatto in una vita dalla concezione opposta. La traduzione di still life è infatti "natura morta". Dientro la semplicità e sobrietà del volto surreale del protagonista, che dentro il lampo di un secondo mi ricorda il personaggio paffuto di "Up!", sta il vuoto ed il silenzio di una vita che sa di pranzi con cibi in scatola ed ordinarie fette di toast, guardando solitariamente il muro di fronte. Giorno dopo giorno si consuma la vita di John May, isolato dal mondo delle relazioni, se non da quelle coi defunti, anch'essi abbandonati. Se si dovesse trovare un job title al mestiere di Jonh May eufemisticamente direi che il suo compito era curare l'anagrafe dei defunti, procacciando un pubblico alle loro esequie. John May ha un viso lunare e con questo pallore mortuario cerca nella morte il senso della vita degli altri e, quindi della propria. Cerca la comunicazione nella comunione delle anime durante l'estremo rito del funerale, quando in realtà è alla ricerca del proprio ruolo comunicativo, della propria storia. Nella sua ricerca casuale, John May incontra tante storie e costruisce la propria vita con il collage accurato delle mezze parole che riesce a catturare di bocca alle persone che non vogliono parlare del defunto in questione. Un macabro Sherlock Holmes? In realtà John May non deve scoprire nulla, solo riparare. 
Il suo luogo di lavoro è un ufficio pervaso di bianco, il non colore più travolgente e freddo, anche perchè rimanda al colore della neve. Ha un telefono a disposizione, con il quale contatta le persone che avrebbero potuto conoscere il defunto di turno. Se la cornetta è il suo interlocutore, la morte è un diritto da tutelare. Esco dalla sala pensando che "Still life" è una natura tutt'altro che morta, è un inno alla dignità della vita. E' l'articolo 36 della Costituzione. Sono quelli che salgono sulle fabbriche perchè perdono il lavoro. E poi sono tutti quelli che non hanno il coraggio di vivere e nemmeno di morire. 
"Still life" è un film che ti torce un pugnale nello stomaco. Parla alla pancia prima che al cuore. Solo quando si tocca alla pancia si riesce a dire "non è giusto", prima ancora di dire "è vero".

giovedì 12 dicembre 2013

Il pescatore di sogni

Chi ha detto che "Il pescatore di sogni" è un bel film? Mi affretto ad acquistarlo fremendo dalla curiosità, ma quello in cui mi imbatto  è un film sospeso nel tempo, senza che riesca a comunicare alcun senso di magia. Il surrealismo narrativo non fa che appesantire la trama, tratta da un già impegnativo romanzo. Il tema della pesca del salmone nello Yemen si trasforma in una melensa e grossolanamente delineata storia d' amore. Nonostante questo la fotografia è di buon livello. L' elemento che domina l' intera pellicola rimane purtroppo la lentezza narrativa ed una sceneggiatura tratta dal romanzo british che fa acqua da tutte le parti.

mercoledì 11 dicembre 2013

Blue Jasmine

Ogni volta che entro in sala per una pellicola di Woody Allen ne cerco il volto terribilmente buffo ed il suo eloquio tipicamente forgiato di termini come prosaico, faresaico ecc.. Non incrociando il suo sguardo sullo schermo sento il suo mondo interiore diffondersi nell' aria che respirano le protagoniste. Jasmine e sua sorella sono le due anime di Woody, ambizione, smarrimento esistenziale e valoriale l' una e nevrosi quotidiane l' altra. Alta borghesia e proletariato. Come in molte sue pellicole la sceneggiatura è al limite con il genere teatrale. Le battute sono argute ed i personaggi profondi. La "grande bellezza" della vita mondana di Jasmine perde sempre più la già melliflua consistenza iniziale. Il suo personaggio si costruisce e destruttura al contempo, man mano che i minuti passano.Questo processo di narrazione (psic)analitica va di pari passo con lo svelarsi della verità sulla vita di Jasmine. Uno scenario noir si prospetta per lo spettatore. Dopo aver costruito una filmografia che spazia da " La rosa purpurea del Cairo"a "Match point", con " Blue Jasmine" Woody Allen fonde nevrosi, mistero e doppio sé.

lunedì 25 novembre 2013

Vita di Pi


"Vita di Pi" è un film la cui crudeltà e bellezza vanno a braccetto in un estatico e sconvolgente rapporto. La fotografia del mondo che Pi osserva dalla barca, che lo sta portando in una ignota direzione, domina la scena così come il fato dirotta e definisce la sua vita. 

Pi convive per tutto il tempo del film con una tigre dal nome antropomorfico di Richard Parker, l' animale più feroce della terra e l' intera pellicola non è che il dialogo silenzioso tra Pi e la belva.
La struttura narrativa non è quella di un vivere diretto, piuttosto il racconto a posteriori di quello che Pi ha dovuto attraversare nel suo viaggio mistico. La visione di questa storia per me è stata quasi fino alla fine assurdamente piatta. Non riuscivo proprio a capire perché dedicare tanto insensato tempo ad una convivenza così improbabile ed assurda come quella di un ragazzo con una tigre. 
Il finale del film ha riscattato dentro di me il senso intero di questa palese metafora che non riuscivo in alcun modo a decriptare. 
Tutto si svela in un semplice e crudele racconto di una scena breve ed intensa. Non è stato facile per me accettare la visione della realtà celata da quasi due ore di silenzi.
Seppur la mia mente sia stata impegnata per tutto quel tempo a trovare una spiegazione, quando la verità si è palesata ho avuto la medesima reazione psichica del protagonista. Ho preferito che il film rimanesse un racconto ridondante sulla solitudine, piuttosto che un difficile dialogo interiore. Già perché Pi e la tigre sono le due facce di un solo sé che lotta contro l' oceano dell' indefinitezza della vita, ma anche della crudezza della stessa.
Il regista è, dunque, riuscito a fare vivere a me spettatrice lo stesso shock del protagonista, riuscendo a cogliere gli aspetti essenziali della trama mistica dell' omonimo libro da cui è tratto.

Ang Lee si dimostra un genio della rappresentazione cinematografica, con questo film raggiunge livelli di simbolismo interpretativo alti e riesce a tenere le fila di una storia narrata in poche battute e rappresentata in quasi due ore.
Quando ho finito di vederlo mi sono portata dentro un grande senso di spiazzamento, che poi si è trasformato in orrore ed infine in amarezza. Con i giorni le immagini viste hanno insabbiato il ricordo della trama lasciandomi un grande senso di grandezza e potenza del pensiero umano e della sua speranza.

sabato 23 novembre 2013

Venere in pelliccia

Prima di riuscire a scrivere qualcosa di incisivo sul capolavoro "Venere in pelliccia", bisogna lasciare che il complesso script si sedimenti nelle ore dei giorni successivi. Una volta uscita dalla sala ho avuto la strana sensazione di un sovraffaticamento cognitivo e di una esaltazione emotiva. Solo un regista come Roman Polanski, autore di duelli verbali dello stesso calibro come quelli di "Carnage", poteva riuscire ad inchiodarmi sulla poltrona per quasi due ore, proiettandomi una sala teatrale buia con una scarna scenografia e facendomici tuffare con così tanto coinvolgimento.
Emmanuelle Seigner, moglie di Polanski, interpreta un'attrice camaleontica e dal ruolo camaleontico: già perchè in "Venere in pelliccia" tutto è doppio. Il doppio gioco tra recitazione e vita, il ribaltamento dei ruoli tra regista e attore, l'ossimoro tra complessità narrativa e fisicità del contenuto narrato. Tutto questo viene messo in scena con sensualità ed intellettualismo. Il film sul sessimo si ribalta continuamente, spiazzandomi  così come rimane spiazzato il protagonista della pellicola che è l'adattatore dell'opera narrata. A tratti la realtà del film si confonde con la piece dentro il film, interpretando al meglio il teatro pirandelliano. 
Polanski non è sicuramente il primo autore ad avere interpretato liberamente l'opera di Pirandello. Ricordo ad esempio "La rosa purpurea del Cairo" di un altro paroliere del cinema mondiale: Woody Allen. Andai a vedere quel film proprio quando stavo studiando il grande narratore siciliano al Liceo. 
Ciò che rende unico il film di Polanski è la capacità di mettere assieme livelli narrativi diversi e coniugare epoche e mondi culturali, visioni sociali e rappresentazioni psicologiche interiori, e poi ancora l'introspezione freudiana applicata al gioco degli attori, tirando in ballo non solo quelli che lo sono sulla scena, ma anche quelli che lo sono nella vita. L'equilibrio di coppia è interpretato in chiave ottocentesca e poi reinterpretato in chiave moderna, sino a diventare una fotografia ad alta definizione del rapporto amoroso postmoderno.
Il tutto è incorniciato in una parentesi di incipit- fine surreale e magrittiano.
Ecco cos'è stata per me questa Venere in pelliccia.
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lunedì 11 novembre 2013

Captain Phillips - Attacco in mare aperto

Captain Phillips è ua pellicola che racchiude tante storie. Lo si può vedere come un film sulle strategie di negoziazione: quelle difficili partite a scacchi che portano una parte ad avere la meglio sull' altra in una lenta trattativa. La nave può essere vista come un simbolo eloquente dell' america dell' 11 settembre: apparentemente inespugnabile, ma nei fatti così fragile. La notte del mare aperto è lo sfondo del destino oscuro di questa nave. Le scene sono claustrofobiche e vanno in perfetto parallelo con l'angoscia trasmessa dal protagonista, nonostante la tensione psicologica sia tale da reggere la struttura narrativa statica. Tom Hanks è il coraggioso capitano che si immola come ostaggio per salvare il suo equipaggio. Il film è pieno di primi piani che mettono al centro della scena la resilienza e l' equilibrio mentale del forte Capitano Rich. Come in "Cast away", "The terminal" e "Apollo 13", Hanks si rende massimo interprete della difficile parte di un uomo che va incontro ad un destino triste e minaccioso e lo fa con dignità e coraggio. "Captain Phillips" racconta la speranza, la calma, il travaglio e l'intento di non perdere mai la propria dignità. L' angoscia provata dal protagonista si è diffusa in me spettatrice, facendomi uscire dalla sala frastornata. In questa lunga notte nel mare aperto non c' è un momento veramente catartico nemmeno sul finire della trama. Il profilo psicologico di Hanks è perfettamente delineato e la sua interpretazione merita la famosa statuetta del maggiordomo Oscar.

lunedì 21 ottobre 2013

Kill your Darlings - Giovani Ribelli

"Kill your Darlings" letteralmente significa "uccidi i tuoi tesori", anche se in italiano il titolo è stato reso con il ben più piatto "Giovani Ribelli". 
Esercitando una dose di retorica non indifferente il titolo originale del film, diretto dall'esordiente John Krokidas, condensa in sé il senso dell' intera trama. Daniel Radcliffe, Ben Foster e Jack Huston  sono i tre protagonisti della pellicola, che racconta la genesi della creazione letteraria mediante la narrazione della vita di autori quali Allen Ginsberg, Jack Kerouac e William Burroughs, che hanno cambiato la storia della letteratura americana e non solo ed entrano a pieno titolo nella narrativa della Beat Generation.
 "Killi your Darlings " racconta in maniera retorica, ma mai dal tutto scontata, la ricerca dell' ispirazione artistica. Se, infatti, noti registi contemporanei affermano che per fare della scrittura un'arte bisogna viaggiare molto, quello di Allen, Kerouac e Burroughs è più che altro un viaggio interiore e socialmente condiviso nel mondo delle allucinazioni. 
La pellicola è facile a strumentazioni moralistiche, ma personalmente ciò che mi ha travolto sono stati i pensieri inerenti lo scenario in cui può vivere un'artista, che il film ha innescato. Il contesto sociale può essere ben lontano dal genere di romanzi che egli poi produce, così come ci possono essere netti parallelismi. 
"Kill your darlings" gode di una solida sceneggiatura e di un ritmo serrato rispetto allo standard dei film di questo genere. I personaggi sono al limite tra lo stereotipo e l'autenticità, ma si salvano grazie ad una trama che vira verso il noir senza perdere coerenza. 

domenica 13 ottobre 2013

Rush

Riuscire a beccare l'orario di programmazione per vedere "Rush" appare ormai ai miei occhi sfidante quanto le corse del film, quando in una frizzante serata d'autunno entro nella sala giusta all'orario corretto. Dopo aver atteso questo momento per una decina di giorni, le mie lievitate aspettative creano una cortina di ghiaccio, difficile da superare. Per i primi tre quarti d'ora del film la sensazione che domina dentro di me è di spiazzante disappunto. 
Nella strutturazione narrativa di un film la prima parte è dedicata alla "messa in solido" dei personaggi. A me sembra tuttavia che James Hunt e Niki Lauda siano messi a fuoco solo relativamente ad aspetti stereotipati e che non venga fuori l'essenza del loro carattere, ovvero la nitidezza del "da dove vengo" e "dove sto andando". Ron Howard, del resto, è un regista che si è sempre distinto per film d'azione, fatto salvo "A beautiful mind". 
Il primo tempo del film finisce col soffrire di una lentezza narrativa data dal gravitare attorno a personaggi sostanzialmente vuoti e difficili da "sentire" emotivamente. Ciò sembra essere davvero un paradosso visto che l'obiettivo centrale del film è proprio il continuo parallelo tra l'uno e l'altro pilota.
Quando si spengono le luci in sala ed inizia il secondo tempo, ho il presentimento che le regole sulla strutturazione narrativa dei personaggi non siano così assolute. In " Rush", infatti, succede qualcosa che non avevo mai osservato in un film: i personaggi acquisiscono profondità nell'agire, ovvero nella parte della pellicola che in genere coincide con lo sviluppo della storia. In breve: evoluzione della trama e strutturazione dei personaggi vanno di pari passo, fino a sovrapporsi.
Nonostante la recitazione dell'attore Daniel Bruhl (Niki Lauda) non mi entusiasmi, la storia del pilota di Formula 1 mi spiazza e travolge con una serie di riflessioni che si diramano nei miei pensieri prendendo strade singolarmente distinte. 
Da un lato c'è la storia di una carriera vincente, che diventa tale passando attraverso una grave crisi, che mette a dura prova il carattere del pilota Niki Lauda, contro la piattezza della vita sregolata, ma tutto sommato prevedibile di Hunt. 
Un altro rivolo di pensieri va al valore intrinseco dello sport stesso, sul quale finora non mi sono mai fermata a riflettere. Quando esco dal cinema, concludo che correre a quella velocità, affrontando ogni volta un rischio mortale è una religione rivestita con una tuta ed un casco, piuttosto che uno sport profondamente privo di etica.
Esulando dall'aspetto sportivo e competitivo in sè, "Rush" è anche una grandiosa riflessione sul senso del limite che ognuno si porta dentro, attraversando il prezzo della vita e della morte, della vittoria e della sconfitta, binomi che si intrecciano continuamente nel film.
Non per ultimo c'è il rapporto tra due piloti, le cui vite scorrono parallele e si definiscono sempre meglio nelle loro peculiarità distintive, man mano che la trama avanza. 
Anche solo per uno di questi rivoli di pensieri, "Rush" merita di essere visto.


giovedì 10 ottobre 2013

La stada

La prima volta che ho visto "La strada" non ero ancora un' adolescente. Ne ricordo solo la figura burlesca di Giulietta Masina ed il colore bianco e nero della pellicola. A distanza di quasi 18 anni, entusiasmata dal documentario "Che strano chiamarsi Fellini", decido di rivederlo. Il personaggio principale di Giulietta Masina spicca con eleganza e maestria sul grigiore neorealista del mondo che la circonda. Nonostante la sua indole semplice e credulona, non rimane vittima della sofferenza che lei stessa sopporta e comunica, riuscendo a rimanere ancorata ad un mondo alimentato dalle sue speranze e fantasie. La strada è il suo ring in cui combatte, come tante persone durante il
dopoguerra, per la sua stessa sopravvivenza. La strada è un film forte e profondamente triste, ma di quel tono di tristezza artisticamente reso in maniera talmente credibile ed al contempo relativo, da raggiungere la perfezione estetica della rappresentazione.

venerdì 4 ottobre 2013

Gravity

Codici, nomi impronunciabili, linguaggio strettamente tecnico: entro in sala aspettandomi tutto questo, ma qualcosa mi suggerisce che non sarà proprio così. Con questo presentimento decido di andare a vedere "Gravity": un genere che altrimenti non mi avrebbe rapito.
Il mio sesto senso trova conferma empirica in una qualità di immagini in 3D capace di trasmettere l'immensità della vita e di ciò che va oltre quella caverna di Platone, quell' uovo prossemico chiamato Terra. Al di fuori di questa sfera colorata di tante tonalità di blu, marrone e verde, si staglia l'infinito. 
Fino a poco tempo fa avrei ascoltato solo la voce della ragione, che avrebbe portato a pensare che alcune scene del film sono poco credibili o scontate: l'abbandono del "grillo parlante" Clooney nello spazio, la selezione di una astronauta così umanamente fragile ed insicura come Sandra Bullock. In una umida serata d'autunno, invece il cuore mi trascina a credere fino in fondo a questa gigantesca metafora della vita. 
Quanti schemi ci condizionano nella nostra caverna di Platone quotidiana? La prima è una legge fisica: quella della gravità, poi vengono tutte le nostre paure, la nostra voglia di vivere e quella di mollare tutto che lottano quotidianamente contendendosi sul filo di lana la vittoria del potere d'azione.
La Bullock raggiunge la maturità attoriale interpretando un ruolo altamente drammatico e profondo, senza poter contare sul potere della fisicità, essendo in tuta da cosmonauta per tutto il film, riuscendo tuttavia a trasmettere tutta la fragilità dell'uomo di oggi, in un'ora e mezza di scena quasi completamente dominata da lei.
Non più soggetta alla legge di gravità, rimane vittima delle sue paure e di fronte ad una missione di cui è la palese unica superstite, lotta per contrastare la voglia di raggiungere la sua unica figlia in cielo.
Crisi di panico, paura di non essere all'altezza, che l'ossigeno finisca e che non ci sia nessuno laggiù sul globo terrestre a rispondere al suo segnale di aiuto "Huston alla cieca", voglia di staccare tutto ed aspettare che questo ultimo giorno si compia: tutto ciò rimbalza improvvisamente contro l'altro lato di sè che la richiama a combattere e quindi a vivere.
Un film forse furbo, ma universale, in grado di colpire il cuore di tutti, senza scadere nel patetismo, grazie ad una scritturazione del personaggio della Bullock, che sembra esserle cucito addosso. Una grande prova per Sandra Bullock, che denota una forte crescita professionale se si pensa alla ragazza acqua e sapone di "Un amore tutto suo", film che la aveva lanciata nel mondo di Hollywood nel '95.

lunedì 23 settembre 2013

Che strano chiamarsi Federico


È davvero strano chiamarsi Federico. Quando morì all' età di 73 anni era il 31 ottobre del 1993. Ricordo che ero seduta a tavola e non ero ancora abbastanza alta da emanciparmi dalla posizione del piatto sul tavolo. Papà sedeva a capotavola e ruppe il silenzio dicendo " E' morto Federico Fellini". Ricordo ancora quel momento perché pensai fosse un suo paziente o un suo amico. Deglutii frettolosamente e chiesi " e chi è?? Un tuo amico?". Mio padre e mia madre, seduta all'altro capotavola risposero " è il più grande regista della storia del cinema". Io ritirai la coda tra le gambe vergognarmi un po' per non aver conosciuto prima il nome di un autore, di cui avevo già provato a vedere " 8 e 1/2". 


Guardo scorrere le immagini del documentario e questi ricordi affiorano alla mia mente superando le strade statali e quelle provinciali dei pensieri quotidiani, arrivando alla velocità di una fiammante Lamborghini a superare le barriere del tempo fino a costituire un quadro perfetto che mi si staglia davanti. Ricordo allora quella domenica d' autunno in cui aprii lo scrigno della vetrinetta in cui erano collocati centinaia di vhs e scelsi proprio "8 e 1/2". Avrò avuto otto anni ad esagerare e dopo le prime scene conclusi " questo (regista) non ci sta con la testa". Non ho mai più provato a rivederlo, ma ricordo con precisione l' onirismo di quelle scene aspetto che costituisce la colonna portante del documentario. "Che strano chiamarsi Federico" è narrativamente costruito in modo apparentemente non strutturato, quasi a ricordare la famosa regia senza copione del Maestro, in cui le battute si creavano sul momento. Il film si apre e si chiude con il ritratto di Fellini di spalle seduto sulla sedia da regista su una apparente spiaggia dove in realtà non si intravede la sabbia, ma una superficie compatta, quasi a voler ricordare gli effetti speciali di una volta. Di fronte si staglia un mare calmo e piatto ed il sole all'orizzonte ammicca ad un tramonto o ad un' alba a discrezione dello spettatore. La scena viene proposta all' inizio ed alla fine del lungometraggio. 

Nel mezzo il circo di Fellini, la sua vita viene ripercorsa fin dal suo incontro con Scola, il regista dell'opera. La pellicola trasmette il grande affetto di Scola verso il regista e ne viene fuori l'intera persona: dal vignettista bohemienne che di notte frequenta i bar citando in qua ed in là i grandi registi dell' epoca, al grande regista, che sfoggia la sua sciarpa rossa ed il suo famoso cappello mentre passa al vaglio dei provini i più grandi attori dell' epoca e della storia del cinema: Marcello Mastroianni, Vittorio Gassmann, Alberto Sordi, per non citare quelli solo nominati. "Che strano chiamarsi Federico" è una biografia che celebra l'uomo, ripreso spesso di spalle come a voler calcare l'inarrivabilita' del suo genio, e gli fa ruotare attorno tutti i film più famosi come in un Carosello. 
La voce narrante è un uomo qualsiasi, un deus ex machina che toglie l'incombenza di raccontare all'amico di una vita, Ettore Scola, lasciandolo godere nel suo ruolo di coprotagonista. Di riflesso si delinea il quadro di un' Italia che trasuda opulenza e benessere e soprattutto in cui la storia del cinema è tutta "work in progress".
Esco dalla sala inondata di una creatività mai provata che si sedimenta nei giorni successivi e mi accompagna nei miei pensieri nutrendosi dello strano coraggio di beffarsi della loro stessa pesantezza.

venerdì 13 settembre 2013

The marathon man - Il maratoneta


Arrivo ad incontrare "The Marathon man" chiedendo a google " quali sono i migliori thriller da vedere". Navigando approdo in un forum in cui tra "Die hard" ed il film di Arsenio Lupin compare il titolo directed by Schlesinger, alla regia anche del ben noto "Un uomo da marciapiede". 
Leggo ovunque che si tratta di un capolavoro. Metto su il dvd e l'incipit con un giovanissimo Dustin Hoffman che corre illuminato da un sole dalle tonalità tipiche delle pellicole anni 70 è già in sé un piccolo capolavoro. La vita piatta di un uomo semplice soprannominato "Lo scemo" prende presto la forma di un giallo coi tempi e le modalità sceniche tipiche dei primi thriller figli del grande Hitchcock. Molte scene infatti mi ricordano il grande Alfred: il colore del sangue negli scontri, la retorica rappresentativa con cui ci si arriva. Rimango colpita da come alcune scene riescano, nella loro apparente linearità espositiva a turbarmi. La scena in cuI il torturatore nazista afferma con voce neutra "Trapanero' un dente sano" mentre Dustin Hoffman immobilizzato di fronte lo guarda con atterrito, mi ha trasmesso un inatteso senso di violenza. Mi viene in mente la scena dell'occhio di Arancia meccanica e la violenza trasmessa da quel bulbo oculare forzato a rimanere aperto, a vedere. 
"The Marathon man" è un susseguirsi di scene da antologia del genere, un' escalation di tensione ed un finale che mi ricorda sia i gironi danteschi per la morale trasmessa sia  una celeberrima scena con Kim Novak in "La donna che visse due volte" .

lunedì 9 settembre 2013

Da Rocky a Rocky Balboa


Rocky al quindicesimo round affonda sul ring e grida, grondante di sangue e con gli occhi a fessura "ADRIANA TI AMO!" Con la voce graffiante da tigre incazzata di Ferruccio Amendola e lo sguardo da trentenne e la camminata tutta sua: un passo ciondilante allineato all'altro. Ogni sequenza di secondi gira il collo di lato e cronicamente molleggia (avrà copiato da lui Celentano?) sulle ginocchia e tira accenni di pugni a sinistra e a destra. Poi quando racconta le barzellette che non fanno ridere ad Adriana ed in un gelido pomeriggio d' inverno di fronte ad uno zoo sommerso dalla neve abbozza un " mi chiedo se ti dispiacerebbe molto sposarti". Alla conferenza stampa che presenta il match con Apollo Creed dichiara che coi 20000 dollari che guadagnerà regalerà ad Adriana "due belle bocce di profumo " si perché ad Adriana piacciono i profumi". Poi sale sul ring nel secondo, nel terzo,nel quarto, nel quinto e nel sesto sequel ed anche se il corpo si trasforma, l espressione è più matura, Rocky Balboa è sempre Rocky Balboa: non molla mai e si rialza sempre. Un grande esempio di resilienza fisica e mentale. Una lezione di amore antico rude e romantico al contempo e di dedizione verso le proprie ambizioni. "Io non ti ho mai chiesto di non essere una donna, non chiedermi di non essere uomo" è una delle perle della favolosa sceneggiatura di Stallone stesso. L'attore regista sceneggiatore si rende autore di uno script unico, che disegna in profondità un personaggio di borgata, un uomo tra tanti che cerca riscatto.

"Guarda che il mondo non è tutto rose e fiori... è davvero un postaccio misero e sporco e per quanto forte tu possa essere se glielo permetti ti mette in ginocchio e ti lascia senza niente per sempre!!! ne io ne tu nessuno può colpire duro come fa la vita perciò andando avanti non è importante come colpisci l'importante è come sai resistere ai colpi come incassi e se finisci al tappeto hai la forza di rialzarti... così sei un vincente!!! e se credi di essere forte lo devi dimostrare di essere forte perché un uomo è forte solo se sa resistere..."

giovedì 5 settembre 2013

Time

Vincitore del leone d oro al 69 o Festival di Venezia, Time è un film crudele. Ritrae l' altro lato della medaglia della passione che è l' odio: Quello estremo, che deturpa il corpo e l'anima. L' antinomia tra il candore, l' ordine, la pacatezza e la profonda spiritualità della cultura orientale e la brutalità profonda del senso di vendetta di un rapporto alla deriva, costituisce il valore massimo che il regista riesce a trasmettere. L' idea che anche in culture orientali il fisico diventi strumento di forte comunicazione e non di allusione a stati d animo intangibilmente eterei è un forte richiamo che il regista lancia verso la cultura del proprio popolo. Si fa così portavoce di un cambiamento o perlomeno instilla un profondo dubbio.
L' aspetto della trasformazione violenta del corpo riporta la mia mente, avvezza alle evocazioni in parallelo, al film di Almodovar "La pelle che abito", anche se si tratta di una pura libera associazione che mi sono concessa.

sabato 22 giugno 2013

Iron man

Un viaggio a ritroso nel mondo dei supereroi. Esco letteralmente dalla mia isola felice di film e risalgo il torrente partendo da The Avengers, approdo ad Iron man 3 nelle sale. Solo per ultimo arrivo a vedere il lievito madre per essere un pò burleschi e decò, del mondo dei supereroi: Iron Man. 
Ecco il primo vagito del grande successo di carriera di Robert Downey Jr.: dallo sguardo troppo impenetrabile e dalla mimica facciale eccessivamente seriosa da poter interpretare con eguale carisma un personaggio del mondo reale. Se Iron Man si propone come una sorta di Clark, la sua evoluzione necessita di una maggiore copertura tecnologica. Qui l'associazione passa subito da Superman a Robocop. 
Quando uscì quest'ultimo film ricordo che i miei occhi rimanevano disillusi di fronte ad una visione troppo cruda e coi pensieri di una bambina credevo che "di questo Robocop" nessuno se ne sarebbe mai ricordato, "soltanto forse mio fratello..." A distanza di vent'anni riconosco la grandezza laddove vedevo la banalità.
Iron man è un eroe umano, ma il suo cuore contiene componenti fantascientifici che lo rendono unico: preda e predatore al contempo dunque. Il pomo della discordia sta al centro del suo costato. Laddove simbolicamente l'uomo colloca le emozioni. Lì dentro Iron Man ha il differenziale massimo che lo distingue dalla specie umana. Così come il pomo della discordia non appartiene a nessuno ed è solo oggetto di contesa, così il segreto di Iron Man è conteso dai suoi rivali. Basta solo questa metafora facile, ma profonda per spiegare l'origine antropologica delle guerre. Robocop questo lo aveva già scoperto. Qual è allora il valore aggiunto di Iron Man? Sicuramente la risposta più facile è "gli effetti speciali", ma il vero tocco di classe sta nella sobrietà dei dettagli, che in un film baraccone per definizione conferisce un senso di equilibrio. Il dono della sintesi del regista non è da trascurare. Tante volte la messa in scena dell'assenza di confini di un supereroe fa dimenticare la presenza di confini negli spettatori, che spesso si trovano a dover affrontare la visione di pellicole temporalmente molto estese.

giovedì 23 maggio 2013

La grande bellezza

La grande bellezza è la provocazione di poter costruire un film montando tra di loro scene prive del più potente filo conduttore: la trama. Così, avvaledosi di una sceneggiatura che veramente spacca ogni schema, Sorrentino lascia che il protagonista si muova in diversi sketch e situazoni, la cui sequenza di montaggi può risultate talmente casuale da non riscotruire un filo logico speppur metaforico. Con citazioni felliniane oniriche e spunti dal cinema americano indipendente di Smoke, "La grande belle bellezza" rimane un prodotto altaenta oriiginale, in cui ogni scena meriterebbe  una pausa per poterla analizzarre il tutta la sua bellezza. Si esce da cinema intontiti ed immensi i un caleidoscopio di mmagini....
IL fill è una kermess di attori che celebrano il personalismo del protagonista, apparendo e scimparendo come niente fosse.Su di tutti domina l'indecifrabile recitazione di Toni Servillo.

lunedì 13 maggio 2013

Limitless

Inquadrature grandangolari, situazioni oniriche, lo sguardo "strammato", prendendo in prestito il termine da Camilleri, del protagonista Bradley Cooper, "Limitless" incarna il sogno dell'uomo contemporaneo nato o adattato all'era digitale. Mai la psicologia cognitiva ed il funzionamento della mente sono state al centro delle fantasie di onnipotenza umane. Se nel corso della storia evolutiva dell'uomo, la sua potenza è stata rappresentata dalla forza fisica (da Hulk a Superman, tanto per citare qualche esempio cinematografico), oggi il differenziale si è spostato sulle capacità mentali. Basta entrare in una qualsiasi libreria fornita per imbattersi nella prolificazione di testi sul potenziamento delle capacità mentali.
"Limitless" riprende in chiave contemporanea il mito dell'onnipotenza cognitiva, capace non solo di fronteggiare, ma di padroneggiare e finalizzare quel bombardamento di informazioni che la nostra mente quotidianamente nella normalità filtra. Se Nietzsche parla di Oltreuomo riferendosi a "colui che è sopra gli uomini e li schiaccia", determinando i propri valori, in "Limitless" l'unico valore è la conoscenza perchè strumento di potere. Del resto lo si vede anche nella quotidiana vita lavorativa come chi detiene maggiore conoscenza  (il tanto di moda "know how")  sia più propenso al successo, comparativamente parlando.
Trattandosi di un fantasy il tema è affrontato in chiave possibilistica conferendo ad un' ipotetica pillola incolore il potere di rendere chi la assume privo di ogni filtro e barriera mentale e dotato dell' illimitata capacità di elaborare e gestire le informazioni. Il percorso di Cooper non è però semplice, presto l'onnipotenza diviene una dipendenza dall'idea di onnipotenza, ergo una forma di droga.
Il regista traccia con grande capacità di sintesi e dinamismo una parabola esistenziale egregiamente interpretata da Bradley Cooper e, facendo gioco sul simbolismo tipico del genere fantasy, apre una pista veramente "limitless" di riflessioni sull'uomo, le sue ambizioni e le sue capacità.

lunedì 6 maggio 2013

Iron Man 3

Chi di voi non si ricorda "Robocop" (classe 1987)? Sembra oggi così candida la trasformazione dell'uomo in macchina, mentre all'epoca faceva quasi paura in noi figli degli anni '80. Già perchè il processo di  trasformazione dell'uomo in robot è partita in quegli anni, di cui ricordo è ora patinato. 
Eppure già negli anni del boom di Olivetti e di Happidays, il cinema cominciava ad esprimere il pensiero umano di una trasformazione radicale.... Iron Man non è altro che un uomo che si trasforma, ma il salto in lungo, e non di poco, sta nel suo mantenere l'identità originaria di essere umano. Partendo da Robocop il cinema di fantascienza attraversa un percorso che lo conduce all'identità doppia: all'Avatar. L'uomo non si trasforma del tutto, rimane un essere umano e può ritornarvi quando è non è più necessario essere invincibili. Del resto chi di noi non sogna di essere invincibile, di avere un secondo sè ed una seconda vita?
La saga dei Supereroi, di cui Iron Man 3 costituisce l'ultimo tassello, perlustra questo sogno di onnipotenza, ma anche di riscatto. Iron Man 3 è l'apoteosi di quello che forse nel mondo reale non succederà mai, ma con le nuove realizzazioni prototipiche che vengono dal Giappone probabilmente non è così "fuori dal mondo". Se dall'altra parte del globo, la tecnologia sta sperimentando forme robotiche dalla facies umana, capaci di selezionare tra diverse opzioni e percepire visivamente il contesto circostante, forse il regno di Iron Man non è così fantascientifico.
Questo mi frulla per la testa mentre assisto agli effetti speciali prevedibilmente sensazionali di una trama che rispetta la struttura standard di un action movie. Non conosco il personaggio di Iron Man e pur avendo visto "The Avengers", non sono in grado di effettuare una valutazione comparata. Si sa, che, come diceva Walter Veltroni, i "2" (o "3"), i sequel insomma peccano spesso di scarsa innovazione. Non avendo visto il primo episodio però ho trovato il film di livello medio, sia per quel che riguarda la sceneggiatura, che per la recitazione di Robert Downey jr..

lunedì 15 aprile 2013

Fight Club

Per anni il mio sguardo si è accidentalmente posato sul vhs di Fight Club: una delle poche videocassette della cineteca di una mia cugina. Correvano gli anni '90 e la visione di quel titolo mi trasportava con l' immaginazione dentro un miscuglio di mistero, paura e curiosità. A vent'anni di distanza mi ritrovo col DVD di Fight Club in mano, chiudo gli occhi ed affronto le sensazioni conturbanti di questi ricordi.
Fight Club è un film che rispecchia pienamente il mondo narrato dallo scrittore Chuck Palaniuk, tanto che non potrebbe che essere tratto da un suo libro. La tanto temuta violenza fisica del film, in realtà è un'inezia rispetto a quello che il cinema di oggi ci propone ed il livello al quale i media di oggi ci hanno addomesticato. Il vero aspetto conturbante, anzi disturbante è che la violenza narrata non è esteriore, ma rappresentazione della mente di una persona disturbata. Trattandosi dell'io narrante la questione si fa ancora più brutale perchè comporre il puzzle diventa veramente difficile: il discrimine tra realtà e delirio è nebulosamente intrigante, ma altrettanto inquientante. La schizofrenia è una malattia psichiatrica che si presta facilmente al cinema, proprio per il potere che ha di trasformare la vita quotidiana di una persona in un giallo.
La prima regola del Fight Club è non parlare mai del Fight Club. Stando così le cose e messi faticosamente in ordine i vari pezzi, mi chiedo se allora esista un Fight Club o se sia solo il frutto dell'immaginazione di Tyler che peraltro neanche esiste.
Da Psicologa mi verrebbe facile inoltrarmi in un'analisi di ogni pezzo di questo delirio, ma visto che si tratta di un film e non di una reale cartella clinica, mi limito a lanciare in rete le mie sconcertanti sensazioni sull'apocalittico mondo in cui naviga la mente del protagonista.
Tyler vuole vivere fuori dall'ordinario e la sceneggiatura è intrisa di massime condivisibili su come interpretare la vita. La prima regola di Tyler è infatti “Niente paura, niente distrazioni, la capacità di lasciarsi scivolare di dosso ciò che non conta.” Il vero asso di questa cupa pellicola sta proprio nel proporre continui ossimori tra ciò che Tyler dice ed il mondo che si crea attorno a lui. Gli aulici valori si scontrano con lo squallore delle sue azioni reali ed immaginarie che siano.

Mi piacerebbe concludere con una nota sulla pettinatura di Helena Bonham Carter, la ragazza con cui Luke ha una relazione o comunque con cui interagisce. Il suo personaggio costituisce il ponte con la normalità e trovo geniale l'aver voluto conferire un aspetto così assurdo anche alla portavoce della realtà, quasi a voler sdrammatizzare in maniera grottesca tutto l'orrore che il film propone.

Come un tuono

Come un tuono, la morte del "malvivente-per-necessità" Luke, irrompe nella vita del microcosmo in cui ognuno di noi costruisce la propria esistenza, ma in particolare di due persone: il poliziotto "colpevole" dell'uccisione ed il figlio di solo un anno al momento del misfatto.
"Come un tuono" corrisponde a140 minuti di film in cui si dipanano le strade delle rispettive coscienze di chi si è macchiato le mani di un delitto,seppur nella legalità, e di chi a questo sangue vuole dare un senso.
Pur eccedendo nella ridondanza descrittiva del personaggio di Luke nella prima ora di film, la storia si rianima nella seconda parte riscattandosi con un buon ritmo. Nonostante il regista riesca a non cadere mai nel patetico, non riesce però a sfuggire alla prevedibilità della trama, messa giù seguendo tutti i luoghi comuni del cinema americano. E di film simili ahimè ne sono stati sfornati tanti: "Molto forte incredibilmente vicino", tanto per citarne uno. Il parallelismo facile con altre trame rende difficile anche il finale, che a mio avviso è troppo narrato e poco cinematografico. Credo, infatti, che il cinema debba lasciare spazio all'immaginazione, non debba riempire di spiegazioni completive.
Deve rimanere qualche angolo in bianco, qualche parola mancante, una inquadratura spiazzante o una colonna sonora disallineata. Lo spettatore ha il diritto di scegliere come riempire queste sbavature,  a malavoglia anche, ma senza senza che gli sia precluso il gusto di proiettare un pò del suo mondo in quello che vede.

lunedì 25 marzo 2013

Il lato positivo - Silver linings Playbook

Silver Linings Playbook è un film che regge per tutta la sua durata il difficile equilibrio tra commedia e dramma. Pat è un ragazzo nel fiore degli anni dallo sguardo perso nei suoi rabbiosi pensieri. Al contempo il suo corpo comunica una gran voglia di riscatto. I suoi pensieri sono ossessivi e circolari, una maniacalità che lo porta ad attacchi di panico  amorevolmente contenuti e gestiti da genitori. Il malinconico Robert De Niro perde la verve di pellicole su temi familiari di tutt'altro spirito come il celebre "Ti presento i miei". Si cala in una vestaglia da pensato fanatico delle scommesse pieno di rimpianti per non essere stato un padre all'altezza di un figlio divenuto così problematico. Niente patetismo e battute affilate disposte come una pietanza di pregio su un piatto di portata all'altezza. Mi riferisco in particolare alla scena del primo incontro di Pat e Tiffany. 
Lui ordina i cereali e lei il the. E' sera. 
Su questo sfondo scorrono di sottofondo le note di popolari canzoni dell'america anni 90. Le parole cantate si avviluppano a quelle che si scambiano i due charachters producendo un armonia scenica assoluta. Tante sono le scene che si potrebbero descrivere e le battute che si vorrebbero ricordare.
Intanto il film va avanti ed ogni tassello della personalità di Pat trova lentamente un suo adattivo incastro col resto della società.
Sarebbe banale portare la riflessione sul sottile confine tra normalità e follia. Piuttosto preferisco descrivere "il lato positivo". Come un puzzle scomponibile e rimontabile in base alla predisposizione del pubblico. Ognuno con il proprio modo di pensare lo monta a proprio piacimento ed allora si può intravedere una storia d'amore, un malcelato Truman Show a fin di bene, la storia di un fallimento esistenziale, così come di un salto verso il lato positivo della vita.
O semplicemente la storia di una grande scommessa. 

Quasi amici intouchables

Le note di Ludovico Einaudi invadono il mio ricordo di "Quasi amici": un film perfettamente intonato con il malinconico senso del fluire della vita trasmesso dal pezzo di pianoforte. A distanza di tre giorni dalla visione non riesco a a liberarmi dell'incantesimo di questa dolce ossessione.
Il film racconta una bella storia drammatica senza scadere nel patetico e riuscendo a trasmettere il senso di accettazione della condizione del protagonista.
L'evoluzione dei personaggi è un pò piatta : tutto sembra embrionalmente protetto in una descrizione di personaggi ben strutturati piuttosto che sulla trama. Se da un lato la recitazione dei protagonisti riempie questo vuoto narrativo, l'evoluzione del rapporto tra i due personaggi risulta scritta in modo marcatamente naif.
Resta da chiedersi se lo stile narrativo non sia volutamente in linea con la vera indole valoriale che il film vuole trasmettere. Quale altra possibilità di vivere in modo positivo viene lasciata ad un malato tetraplegica, se non quella di interpretarla con leggerezza?

martedì 19 marzo 2013

Educazione siberiana

Esistono tanti tipi di violenza: esiste la cruenza, la volgarità verbale, la gratuità dei gesti. Educazione siberiana non è il film violento che immaginavo fosse. Credevo che avrei visto più sangue e più orrore a livello visivo. In realtà Salvatores propone un film documentario, che da alcuni critici italiani è stato posto in parallelo a Gomorra. Narra, infatti, la violenza mentale che parte da una struttura valoriale improntata sulla difesa estrema e sull'attacco. Le scene più impressive del film sono, infatti, proprio quelle che ritraggono i volti dei bambini, ormai abituati a vedere determinate scene.Le loro espressioni sono lievemente turbate, non sconvolte o affrante. Sembra che sia stato loro sottoposto uno stimolo ambiguo, piuttosto che palesemente chiaro. La chiave di volta del film sta proprio nella citazione con cui inizia: Un uomo non può possedere più di quello che il suo cuore può amare. La violenza diventa dunque parte di una educazione sociale e arriva a rientrare se ben incanalata, in una sorta di normalità. Interpretato egregiamente da John Malkovich, al quale spesso viene ritagliato il ruolo della mente malvagia, "Educazione siberiana" è un film italiano che non parla dell'Italia. Controcorrente, coraggioso, dissacrante, Salvatores esplora un genere non facilmente definibile perchè a metà strada tra il drammatico, la denuncia ed il documentario. Nonostante ciò "Educazione siberiana" è come una autostrada ad unica corsia: non ha molte chiavi di lettura, propone una realtà e lascia poco spazio all'immaginazione. Salvatores utilizza, infatti, tutti i mezzi scenici per mettere in chiaro il soggetto. Poco è lasciato allo spettatore a livello cognitivo. Quello che resta è un forte impatto emotivo da gestire.

Il grande e potente Oz

Il regista della trilogia di Spiderman cambia eroe e sceglie un soggetto più ambiguo e umano. 
Portando sullo schermo il prequel del famoso "Mago di Oz" di Victor Fleming, Reimi si addentra nell'analisi visivamente esplosiva di un personaggio al limite tra il prestigio e la magia: il mago di Oz. Ricordando a tratti Avatar, proprio nella ricerca di quelli che sono i veri valori che salvano un popolo, Reimi smonta con tono burlesco il mito del mago. Non per niente l'incipit del film riporta la mente dello spettatore proprio alle atmosfere del genere burlesque, sottolineando il sottile confine tra magia e burla. Lascia sorridere su alcune delle grandi beffe che hanno sorretto le speranze delle persone per secoli, garantendone la sopravvivenza mentale. Dopo aver condotto l'intero film parlando da dietro le quinte e facendo vedere a carte scoperte il gioco burlesco più che magico di Oz, il regista lascia che la sua genialità ci stupisca con la fantasia e la creatività. Un grande omaggio al cinema che riesce con le sue immagini a distrarre qualsiasi strega maligna ed a salvare il regno di Oz e quello dei nostri peggiori incubi.
Se lo stile del film è inizialmente volutamente patinato anche a livello visivo, geniale risulta lo stacco verso la realtà del mondo di Oz, come se il mago si trovasse improvvisamente ad uscire da un grembo fetale ed il liquido amniotico si trasforma in gallerie di colori sfumati che invadono la vista dello spettatore grazie ad uno spettacolare effetto 3D. 
E quale piccola donna non può non riconoscersi nella bambola di porcellana dalle gambe rotte, che il grande e potente Oz riesce a guarire con una magica sorta di supercolla?

lunedì 11 marzo 2013

Viva la libertà


Due gemelli o due voci interiori? Questa è la domanda che mi sono posta per tutta la durata di “Viva la libertà”.L’ultimo film in cui si esibisce l’ormai “re” del cinema italiano: Toni Servillo, stupisce subito per la sceneggiatura affilata che non esita dal proporre alte citazioni come la poesi a di Brecht “A chi esita”.”Viva la libertà” è un vero esempio di gioiello cinematografico: un film non dovrebbe infatti istigare pensieri fornendo spunti allegorici? Se inteso in questo senso “Viva la libertà” è proprio un capolavoro perché conduce in maniera diretta ed appassionata lo spettatore ad un bivio con molte strade tra cui scegliere. Ogni spettatore, infatti, può concedersi il lusso di intravedervi una propria visione. Non impone, né propone, semplicemente è un quadro impressionista il cui pennello viene lasciato in mano allo spettatore. Ed allora la fantasia si sbizzarrisce, soprattutto alla luce della coincidenza dell’uscita nelle sale con l’incerta fase postelettorale, anch’essa poco risolutoria.

Enrico è un politico diplomatico e schematico. Il fratello gemello è la passione, incarna la genuinità e la linearità ed al contempo l’estro e la creatività. Per tutto il film ci si domanda chi sia più degno di governare l’Italia, ma la riflessione sconfina su diversi livelli interpretativi, rendendo la risposta non scontata. Viene da domandarsi cosa significhi essere un “buffone” e la differenza con il termine “buffo”. Ci si può accorgere che tra i due termini così apparentemente simili c’è un abisso paradossale. Si può risollevare l’Italia? Si può continuare a sperare che sia proprio la follia a salvare il nostro Paese? E di quale follia abbiamo bisogno?

Su quest’onda valoriale si lancia come una scheggia l’interpretazione di Toni Servillo che interpreta follia e rigore con una invidiabile disinvoltura, cogliendo ogni sfumatura che distacca ed unisce i due poli, rendendoli verosimili e conciliabili, ma al contempo sfacciatamente opposti.

Non basta vederlo una volta per assaporarlo appieno, ma basta per capire che è un capolavoro.

sabato 16 febbraio 2013

Tutto su mia madre


Dopo 13 anni dalla sua uscita nelle sale, Tutto su mia madre, continua ad evocare nello spettatore quell'antico spiazzamento, che provai quando lo vidi in sala. Coloro eccentrici, parenti di egocentrici, ovvero del trionfo greco della commedia e della tragedia al contempo. Tutto fa scena, tutto è bivalente, ma non per questo equivocabile: può esserci speranza di riscatto nella morte, come morte in certe forme di degrado della vita. Nulla è bianco o nero: le sfumature sono ridondanti e la loro abbondanza segna l'innovazione visiva più grande che Almodovar ha apportato al cinema contemporaneo. Tutto è trionfalmente sobrio, pulito e sincero, ma amplificato come da un megafono invisibile. Rivedendo il film ne colgo maggiormente la drammaticità, ma a 13 anni di distanza rivedo la scena in cui Escobar viene investito e continuo a trovarla una invenzione visiva unica, che vale da sola il prezzo del biglietto.Cos'è il cinema se non un riflesso di qualcosa? Non per niente ad Almodovar è riconosciuto il tributo di aver plasmato un genere l' Almodrama, unico per il sapere creare una salda invisibile linea sottile tra la morte e la vita.

lunedì 11 febbraio 2013

Hugo cabret

"Hugo Cabret" è un visonario e surreale film sulla magia, in cui gli effetti visivi trionfano sul contenuto piuttosto demagogico, ma riescono comunque a regalare momenti unici. La versione 3 D del film ha un potenziale unico che difficilmente riesce ad essere ripreso dalla pellicola 2D, perciò ci si domanda se abbia senso un tale sfoggio di immagini che in realtà non riesco a raggiungere il culmine del loro incanto. La trama non conquista se no n per la sua semplicità ed a volte il tono naif di narrazione sembra scimmiottare  il mondo fatato quanto inesistente de "Il favoloso mondo di Amelie". L'aspetto tecnico pur dominante sembra lasciare vincere una sorta di innocenza della visione.

martedì 5 febbraio 2013

Lincoln


Dopo aver ottenuto la gloria con pellicole che hanno fatto la storia del cinema americano e mondiale (E.T., Salvate il soldato Ryan, Indiana Jones, Jurassic Park), il regista ritorna al genere storico, ma stavolta senza fantasia. “Lincoln” non ha, infatti, l’invettiva di altri film come “Amistad”. Rimane strozzato da un registro che si stanzia a metà tra il genere biografico e quello storico. Ad emergere non è infatti il personaggio del famoso presidente che ha liberato l’America dalla schiavitù dei neri, né la guerra civile americana, piuttosto le dinamiche politiche che sottendono a questa grande rivoluzione politica, sociale e culturale.
Nell’era della digitalizzazione stupisce vedere come la storia dei popoli sia stata costruita a suon di biglietti scritti a mano e trasportati da una parte all’altra dei Paesi a cavallo. Tutte le dinamiche del sistema politico dell’epoca sono gestiti in modo così rudimentale rispetto agli strumenti di cui il potere dispone oggi, tanto da far risaltare ancor più all’occhio la risonanza delle rivoluzioni che propugnano. Se, infatti, le decisioni politiche viaggiano sul filo di votazioni a voce, alzate di mano e biglietti scritti e portati a mano, la loro essenza è rivoluzionaria. Si tratta della costituzione di regole di civiltà fondamentali per l’umanità. L’abolizione della schiavitù narrata in “Lincoln” è, infatti, una rivoluzione storica nella rappresentazione sociale di una razza intera.
Se con "Amistad" e "Salvate il soldato Ryan", Spielberg era riuscito ad affrancarsi dal trionfalismo americano, raccontando la storia attraverso piccole storie, con "Lincoln" il regista non riesce ad evitare di sprofondare in un registro narrativo autocontemplativo fondato sull'esaltazione del senso di patria degli USA.
Se la pellicola soffre un pò troppo di claustrofobia narrativa, vista la fissità scenografica, la figura di Lincoln spicca per la brillante interpretazione del grande attore inglese Daniel Day-Lewis, che si rende di nuovo interprete di grandi ruoli legati al mutamento delle società.

venerdì 1 febbraio 2013

Django - Unchained

Non è mai facile scrivere in merito ai film di Tarantino: sembra sempre che il linguaggio verbale non contenga vocaboli talmente originali e provocatori da trasmettere quello che il regista comunica ogni volta al pubblico in sala.
Come definire Django? 
Sicuramente non esiste una frase che lo possa incasellare. Posso, però, dire che tra la beffa e la celebrazione esistono mille sfumature e Tarantino si diverte ad attraversale tutte con una potenza di sintesi visiva estrema. Il genere in oggetto è il western, quello che ha reso celebri i più grandi registi e attori della storia del cinema americano e che racconta un pezzo della storia degli Stati Uniti.
Django è il nome di un ragazzo di colore talmente annichilito dalla frustrazione di tutto ciò che ha visto, sopportato e subito da schiavo, da non avere più paura di niente. 
Unendo farsa e celebrazione in stile Shrek, ma in versione splatter, Tarantino racconta una storia darwiniana sulla lotta alla sopravvivenza, dove le ipotesi lombrosiane che hanno piegato la dignità di una razza vengono smentite dalla voglia di riscatto sociale e prima ancora esistenziale di Django. Il protagonista è si un nero, ma è intelligente più di tanti bianchi ed il film è la celebrazione della sua escalation verso l'emancipazione. La scena in cui il protagonista riesce a giocare le poche carte che ha per tirarsi fuori dalla gabbia in cui era incatenato mentre gli altri schiavi rimangono lì a sopportare la loro condizione è da antologia. 
Tutto nel film è armonico: dai dialoghi alla scenografia alla colonna sonora. L'accuratezza verso ogni dettaglio è maniacalmente autocelebrativa, tanto da risultare pregio e limite del film.

lunedì 14 gennaio 2013

Molto forte, incredibilmente vicino


Dal brillante regista di film introspettivi quali “The Hours” e “The Reader- Ad alta voce”, con “Molto forte, incredibilmente vicino”, Stephen Daldry decide di raccontare uno spezzone di storia americana. Partendo dalla trama dell’omonimo romanzo di Jonathan Safran Foer (2005), il regista trova un perfetto parallelismo tra la tragedia dello storico attentato alle torri gemelle a la ricerca della propria storia e di quella del padre da parte del protagonista di nove anni Oskar Skell. Se la figura paterna è incarnata da un Tom Hanks ormai diventato icona dell’identità e dell’orgoglio americano, il ruolo del figlio è interpretato da un eccellente Thomas Horn.

Per fortuna e purtroppo non posso entrare nel merito della comparazione della versione letteraria con quella cinematografica. Sicuramente la storia ben si presta ad una sua scritturazione patetica e piatta, ma il regista riesce tutto sommato a tirarsi fuori dal patetismo quasi assicurato. L’escamotage per non cedere ad una storia banalmente strappalacrime è quello di interpretare il dramma del figlio alla ricerca di tracce che diano un senso alla vita ed alla morte del padre in una sorta di ricerca riflesasa di sé stessi. La figura del padre diviene così solo un deus ex machina per portare il ragazzino ad uscire dal recinto delle proprie patinate certezze, avventurandosi in una creativa, vivace ed intensa caccia al tesoro alla ricerca di sé e di un senso per la propria vita. In quest’ottica “Molto forte, incredibilmente vicino” non è altro che un trattato informale di psicologia di sviluppo. In proposito vien da dire che il ruolo della madre Sandra Bullock è da manuale. Il suo modo inatteso di comportarsi, monitorando l’avventura del figlio, pur senza invadere le sue scoperte nè controllare o giudicare, coincide proprio con quello che tecnicamente è il ruolo del genitore che accompagna senza proteggere. Anche la madre di Oskar ha bisogno di trovare un senso all’accaduto, come membro della famiglia, anche lei ha subito un lutto importante, ma quando avverte il malessere del figlio trova la forza di disassopirsi dal torpore depressivo in cui l’evento scioccante della morte del marito l’aveva piombata.  Capisce che Oskar ha bisogno dei propri spazi e li rispetta, ma al contempo lo difende dai pericoli. Riesce,m così, nel difficile intento di difendersi dalla propria ansia senza limitare il desiderio legittimo di riscatto di suo figlio. Fin dove può arrivare il figlio con l’aiuto della madre? In quale pericoli può incorrere se lei lo lascia totalmente artefice del proprio destino? Ricostruisce così anche lei la mappa del percorso che il figlio deve attraversare. Ne anticipa silenziosamente le mosse come un Messia che viene angelicamente dal cielo.       

Se alcune scene sono poco registicamente interpretate e risultano un buon compito in classe d’effetto, il risultato finale comunica una grande profondità che lascia dimenticare alcuni scivoloni tecnici.

venerdì 4 gennaio 2013

La migliore offerta

Non è assolutamente facile riassumere la costellazione di emozioni e pensieri che le due ore 4 minuti di "La migliore offerta" mi hanno scatenato. 
Oleografico nella descrizione della bellezza estetica, Tornatore rimane sobrio ed essenziale nel delineare i tratti dei personaggi principali. Tra tutti Geoffrey Rush la cui sagoma ciondolante nasconde il carattere maniacale di un collezionista ipocondriaco di guanti che vive da sempre in un ossimorico stato di fama, dato dal proprio ruolo sociale, e di solitudine interiore. 
Battitore d'aste di pregio, il protagonista Oldman conosce Claire per la lavoro: una ragazza intrigante che soffre di agorafobia e piano piano i due si aprono reciprocamente.
L'aspetto scenico e fotografico è accurato ed in linea col tema trattato. Non si nasconde una forte malinconia molto simile a quella di "Novecento". Anche qui i protagonisti sono dei solisti che cantano il loro dolore.
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"La migliore offerta" è una grande storia d'amore e la apertura reciproca di due mondi. Geoffrey Rush recita questo ruolo in maniera più che convincente: sembra quasi essergli cucito addosso.
Le musiche di Morricone sono ormai una costante di alto livello, mentre il film riesce a non appesantirsi in un trattato ridondante sulla sulla bellezza, rimanendo una trama avvincente con picchi di alta emotività. La prima ora è l'unica parte a risultare trascinata.