venerdì 25 febbraio 2011

Giallo


"Giallo" è l'ultimo lungometraggio di Dario Argento, girato in inglese nel 2009 e mai transitato dalle sale passando direttamente alla distribuzione home video. No sono una grande cultrice del regista italiano di horror più famoso, ma "Giallo" mi ha veramente disgustato. Mi è sembrato un film veramente malriuscito con una sceneggiatura piatta e banale: il solito serial killer che uccide donne avvenenti con tanto di scene splatter. E qui voglio aprire una parentesi sul questo genere di scene. Trovo infatti che l'uso di scene estremamente cruente sia giustificato e giustificabile solo in alcuni rari casi. Deve esserci, cioè, un crescendo di tensione che esplode nella scena cruenta. Il sangue deve essere catartico: una esplosione necessaria e logica. In "Giallo", secondo me lo spatter è usato come scorciatoia per attirare l'attenzione laddove la sceneggiatura late.

Un film inutile, scontato e senza una forte idea a sorreggerlo, che non riesce neppure a sfruttare la presenza nel cast di un grande attore come Adrien Brody.

giovedì 24 febbraio 2011

Il cigno nero


"Il cigno nero" è una congegnata rappresentazione in chiave estremamente contemporanea del famoso balletto "Il lago dei cigni", la cui prima messa in scena risale al 1877. Accompagnando pedissequamente proprio come in un ballo in coppia la trama de "Il lago dei cigni", il regista, Aronofsky, già noto per aver diretto "The Wrestler", sviscera ogni simbologia che si può nascondere dietro la fiaba tedesca, cogliendo lo spunto per fornire una fotografia "ad alta risoluzione" dei valori della società di oggi. L'apparenza, la bellezza, la perfezione, tutto ciò è rappresentato con immagini di una potenza suggestiva grandiosa.

Nina, eterna bambina soffocata da una opprimente madre superegoica, viene travolta dall' interpretazione del personaggio bifronte de "Il lago dei cigni", che diventa lo strumento di riscatto verso un'identità adulta, anche attraverso la riappropriazione della propria sessualità. Per fare questo dovrà attraversare tanti sentimenti, quali l'invidia, la competizione, la seduzione spudorata e manipolante dell'ambiguo maestro di danza, prima di ritrovare sè stessa. Aronofsky riesce a coniugare eccellentemente la purezza del prestesto narrativo con l'ambiguità e la violenza delle paure che Nina deve conoscere per andare avanti nel suo percorso. Il più grande merito di questo film è, infatti, riuscire a mantenere una coerenza espositiva ed una suggestione narrativa altissime pur mescolando in maniera estremamente realistica tutti quei sentimenti contrastanti che contraddistinguono ognuno di noi e che metaforicamente sono rappresentati dal cigno bianco e dal cigno nero. Se da un punto di vista di scritturazione dei personaggi, quello della madre di Nina appare un pò troppo stilizzato e macchiettistico, Aronofsky riesce furbescamente a farlo rientrare in una sua visione puramente polarizzata della realtà, autoassolvendosi fin dal principio.

In quanto alla recitazione della Portman, che si dice essere la favorita per il premio di miglior attrice protagonista agli Oscar di quest'anno, sinceramente l'ho trovata, nonostante tutto molto più convincente nel ruolo di cigno bianco, immacolato e ubbidiente, che nella sua evoluzione, pur credibile dal punto di vista della scritturazione del personaggio. Nonostante gli effetti visivi e l'evoluzione anche fisica della ballerina alla quale spuntano, assolutamente non in modo metaforico, le ali, la recitazione di Natalie Portman convince poco nel passaggio finale. Probabilmente ciò è dovuto ad un eccesso di zelo nel voler rappresentare una perfetta trasformazione realisticamente impossibile.

lunedì 21 febbraio 2011

Un gelido inverno


Candidato a 4 Premi Oscar e già vincitore del Gran Premio della Giuria U.S. Dramatic al Sundance Film Festival 2010, "Un gelido inverno" approda nelle sale italiane. Film drammatico ed al contempo thriller dalle pennellate splatter, l'opera della regista del cinema indipendente americano, Debra Granik, è come un macigno che si lega al piede dello spettatore trascinandolo sempre più giù. Esiste un vero fondo per l'angoscia? Ad ogni scena si pensa che non ce ne potrà essere una di più squallidamente disperata, violenta e disumanizzante. La durezza di ciò che si vede e si narra è amplificata dal fatto che a viverle è una ragazza di 17 anni, Ree. La recitazione dell'attice che interpreta questo ruolo, Jennifer Lawrence, è superbamente drammatica e dolce al contempo. Nel suo sguardo si ritrova sempre un velo di speranza anche nelle scene di maggiore drammaticità. La sceneggiatura non è molto articolata, ma scarna come tutto del resto nel film: dai costumi, ai luoghi, ai dialoghi...tutto deve essere espressione di una anoressia esistenziale tipica di quanto si ha il fiato appeso ad un filo. Per questo tutto è volutamente non ricercato. Le parole hanno poco peso perchè per alimentare il mistero sul quale si sorregge disperatamente tutta la trama i silenzi valgono molto di più delle parole.

domenica 20 febbraio 2011

Il Grinta


La lingua italiana contempla varie espressioni per indicare quella reazione emotiva che una scena di un film può generare nello spettatore e che genericamente si chiama "riso". Per scrivere una buona recensione su un film dei fratelli Coen ed in particolare "Il Grinta" bisognerebbe avere una buona cognizione dei vari rivoli in cui si perde questo concetto. E', infatti, proprio in una di queste foci o rientranze che si nasconde il tocco di classe e la firma d'autore che immancabilmente rende un film dei Coen solo ed esclusivamente partoribile da loro. Pur attraversando una molteplicità dei generi i Coen riescono a lasciare una traccia in ognuno di essi, a mescolarli tra loro senza essere mai di cattivo gusto o inopportuni. Fanno anzi dell'insensatezza proprio il punto di forza della loro unicità.

Dopo questa piccola introduzione necessaria va premesso che "Il Grinta" è un film da vedere al cinema. Va gustato nell'immensità dei campi deserti del Texas in cui si perdono eroi e criminali, sceriffi e malviventi. Non esistono i buoni e i cattivi. Se questo è un western è pur sempre "coenizzato" per cui non c'è più il John Wayne della versione originale, figura tutto d'un pezzo. Jeff Bridges raccoglie egregiamente il testimone donando al personaggio quella completezza di sfumature che lo rende attuale. I Coen hanno capito che la società di oggi non ha più bisogno di quegli eroi, i confini delle menti sono cambiati e la figura della quattordicenne Met emerge beffarda ed elegante.

Met rappresenta bene l'intraprendenza di chi non ha paura di scappare (vedi l'ipse dixit che apre il film), di chi crede nei propri valori e vuole farsi strada in un mondo in cui vige ancora, ahimè, la legge del più forte.

I Coen riescono come sempre a far incontrare truculenza delle scene e battute grottesche, come se volessero esorcizzare il male da loro stessi evocato. Al contempo nonostante la durata di quasi due ore, e la fissità scenografica imposta dal genere, il ritmo del film non perde colpi. Nessuna scena è data per scontata. Se un film western abbia ancora senso nel 2011 adesso lo sappiamo: se dietro la macchina da presa ci sono i due fratelli autori di capolavori come "Fargo" e "Non è un Paese per vecchi" la risposta è si.

venerdì 18 febbraio 2011

Femmine contro maschi


Modificando l'ordine degli addendi il risultato non cambia. Questa nota regola matematica, che diventa una battuta tra Ficarra e Picone nel film, può essere una buona sintesi di questo prodotto "Sanvalentiniano". Gli attori sono, infatti, i medesimi di "Maschi contro femmine", il titolo è di per sè una trovata a dir poco "scarsamente fantasiosa". Il tutto risulta una ulteriore operazione commerciale per comprare più spettatori possibili abituandoli, come una madre abitua un bambino, ad accontentarsi di un cinema che scende progressivamente di livello. La qualità cala come il PIL, ma lo fa alla moviola, con una lentezza talmente realistica da sembrare naturale. Ed è proprio qui il vero tranello. Non dobbiamo, infatti, permettere che il nostro cinema diventi così televisivo. Alcune dinamiche della società italiana sono ormai inequivocabili su tutti i fronti: c'è una tale confusione di ruoli. Si confonde la satira con la politica così come si confonde il cinema con la televisione. L'ingordigia regna sovrana. Nulla da dire contro la recitazione dei singoli personaggi televisivi, dalla Littizzetto a Claudio Bisio, se non che il loro carisma appartiene ad un altro, importantissimo genere di spettacolo.

Che dire poi del titolo? Sembra essere uscito da una puntata di Ciao Darwin. Bella espressione dell'emanciapazione dei sessi in Italia! Anche a livello di sceneggiatura "Femmine contro maschi" lascia a desiderare. Sembra, infatti, un patchwork poco convincente, mentre almeno nel suo anteposto "Maschi contro femmine" la trama, seppur elementarissima, sembrava tenere un pò di più.

giovedì 17 febbraio 2011

Gianni e le donne


Dopo il delizioso "Pranzo di Ferragosto", Gianni Di Gregorio ripropone la stessa formula con "Gianni e le donne". Stesso regista, stesso attore principale, stessa macchiettistica figura femminile di madre, la carismatica Valeria De Franciscis Bendoni ed anche la trama non si sposta di molto. Sembra semplicemente che sia cambiata l'angolatura della telecamera, ma la caratterizzazione dei personaggi rimane la stessa. Sembra quasi un sequel, se non ci fosse qualche differenza radicale che fa saltare all'occhio la distinzione tra i due prodotti cinematografici. Nonostante abbia letto pareri favorevoli, pur rimanendo un film garbato e ben congegnato, a me è sembrato troppo commercialmente studiato, proprio per via dell'eccedenza di rimandi al film precedente che ebbe tanto successo a Venezia 2009. A tratti sembra quasi di assistere ad una soap opera per il modo in cui le scene sono montate ed i dialoghi sono congeniati.

Per il resto la trama riporta in scena la figura di un uomo di mezza età che non riesce a guadagnare la propria maturità nè in termini di autonomia dalla ossessionante madre(che, seppur e proprio perchè abbastanza fuori di testa si permette di amministrare in autonomia i beni familiari), nè in termini di fedeltà coniugale. I rimandi alla politica attuale italiana sorgono a questo punto spontanei, ma probabilmente non del tutto intenzionali al momento della stesura dello script.

lunedì 14 febbraio 2011

Into Paradiso


Into Paradiso è un titolo che, seguendo le libere associazioni che il film stesso evoca, sembra voler strizzare l'occhio a chi se ne intende di dialetto meridionale, in base al quale "into" risulta essere la stilizzazione di "dentro". Supposizioni etimologiche a parte, non è facile per una entusiasta reduce dell'ultimo film di Albanese, abbandonarsi al ritmo ed alle modalità narrative con cui l'opera prima di Paola Randi cerca di proporre la malavita napoletana. Credo, infatti, lo ammetto, di essere stata in balia inerte di una sorta di effetto primacy per la prima mezz'ora del film. Qualsiasi scena vedessi veniva raffrontata in automatico con l'indiscutibile forza comunicativa di Cetto La Qualunque. Per fortuna mi sono riuscita a liberare di questa deformazione quando la trama, a mio parere, ha cominciato a farsi più intrigante e meno scontata. Quello che posso dire a sangue freddo è che "Into Paradiso" è un film corale, in cui gioca un rolo cruciale il ribaltamente provocatorio dei ruoli prototipici dei personaggi. Gli Srilankesi non sono gli immigati disperati ed ammaliati dall'Italia, ma clandestini impauriti dalla stessa. Si rifugiano in un palazzo e non vedono l'ora di rimpatriare. Il malavitoso candidato sindaco gioca il ruolo di protagonista solo in via indiretta, come deus ex machina oserei dire. Rimane, infatti, imbavagliato per quasi tutto il film e con il suo non verbale straordinario, che solo il genoma dei Servillo mette a disposizione, domina la scena pur rimanendo ammutolito ed insonorizzato.

Sembra, insomma che la realtà venga rappresentata impressionisticamente per poterne fuggire in maniera onirica, come fà il protagonista quando arriva a vedere la via di fuga del proprio problema, come in un freudiano sogno ad occhi aperti, che ricorda molto da vicino alcuni video di Battiato.

giovedì 10 febbraio 2011

Biutiful


Torno a casa sconvolta dall'interpretazione di un 'intensità ineguagliabile con cui Javier Bardem anima per 138 minuti l'ultimo film di Inàrritu. Il regista messicano mette alla prova uno dei migliori attori viventi fornendogli l'assist per andare direttamente a Cannes a guadagnarsi la consacrazione francese come miglior interpretazione maschile. Tiene testa al nostro Elio Germano, il miglior attore italiano vivente e, al di là di patriottismi del momento, mi rendo conto a freddo che la competizione si è giocata veramente sul filo di lana.

Ho parlato di assist perchè la trama di "Biutiful" sembra essere proprio cucita addosso al tenebroso Bardem. E dire che quando mi capitò la strana coincidenza di incontrarlo ad una prima italiana di "I lunedì al sole" non avrei mai potuto credere che dietro quel naso schiacciato che avevo di fronte c'era la promessa del cinema degli anni subito consecutivi. Da quel momento a quando è diventato un'icona internazionale, infatti sono solo passati due anni (I lunedì al sole, 2002; Mar adentro, 2004).

Nonostante sia difficile commentare "Biutiful" senza cadere nello sperticato elogio di cui sopra, va ammesso che la accecante recitazione di Bardem è solo un ingrediente di un film comunque tecnicamente molto valido. I personaggi di Uxbal e della almodovariana moglie sono tratteggiati in maniera essenziale, ma profonda: delle vere fotografie istantanee. La cornice scenografica riesce a non essere macchiettistica nonostante tutto sia estremo. Ogni aspetto della vita: dal rapporto di coppia, alle relazioni sociali, dalla famiglia al lavoro, tutto è così maledettamente angosciante perchè reso reale. La morte incombe sul film prima ancora di manifestarsi realmente e fà più paura quando paradossalmente ancora non si è realizzata. Una rappresentazione altresì estrema è quella del lavoro nero, denuncia, seppur collaterale, che il regista lancia.

lunedì 7 febbraio 2011

Il discorso del re


La modernità de "Il discorso del re" è la cosa che più mi ha impressionato durante e dopo la visione. Entro in sala probabilmente con le aspettative sbagliate, pur premurandomi di andare ogni volta al cinema col minor numero di informazioni, ergo di aspettative. Eppure già l'aver capito dal trailer che si trattava di un film in costume, mi aveva influenzato abbastanza. Mi aspettavo, infatti, un'impeccabile biografia, ma certo non un geniale film sul tema della comunicazione, della persuasione. Tutte tematiche più che attuali. Non c'è solo l'aspetto dell'immagine ad avere un peso in questa trasposizione. "Il discorso del re" è la storia di quella che in gergo tecnico si potrebbe chiamare "una realizzazione professionale" e prima ancora personale. Il rapporto tra Jeoffrey Rush e Colin Firth è una bellissima rappresentazione cinematografica del rapporto coach-coachee. La balbuzie che inchioda il destino del futuro re Giorgio VI può addirittura diventare un punto di forza del suo modo di esporre, dando profondità e solennità al suo eloquio. Una vera lezione di consulenza d'immagine dunque. Il tutto incorniciato da una fotografia quantomai originale e quatomeno oleografica ed una strepitosa interpretazione di Jeoffrey Rush e Colin Firth.

domenica 6 febbraio 2011

Another year


"Another Year" si caratterizza come film straziantemente realistico fin dal titolo, che esprime perfettamente il modo in cui una persona depressa vede il passare del tempo, cioè come un piatto " altro anno". Mike Leigh si dimostra non solo all'altezza delle sue precedenti pluripremiate creazioni ("Segreti e bugie"), ma scavalca a mio parere il livello di rappresentazione della realtà fin qui raggiunto. Il nostro maestro non ha paura di scavare ancora più a fondo nella mediocrità della vita di chi sopravvive nei sobborghi di Londra, scoprendo qui una sofferenza messa a fuoco in maniera così nitida da essere impressionante. Complice una fotografia perfettamente sincronizzata con lo stato d'animo del film ed una recitazione da far invidia a qualsiasi premio Oscar degli attori principali. Uso l'espressione "stato d'animo" del film non a caso. Non si può, infatti, dire che si tratti di un film univocamente drammatico, ma proprio come l'umore di una persona depressa emergono a sprazzi lampi di umorismo geniale. Da questo punto di vista, l'armonia tra i vari aspetti del film è ammirevole e la potenza della sceneggiatura fa rimpiangere di non poter registrare l'audio del film per potersi poi ritrascrivere determinati passaggi.

Al di là dell'impatto emotivo e visivo, "Another year" è anche un vero trattato sul ruolo dello psicologo nella società e nella professione. Non so quanto consapevolmente Leigh pone al pubblico una pesante riflessione deontologica. Fino a che punto è giusto fare entrare nella propria casa e nella propria vita una persona disperata per puro senso di compassione? E poi ancora: quanto è utile la pietà per chi soffre? Aiutare così narcisisticamente gli altri è un vero aiuto?

venerdì 4 febbraio 2011

Che fine hanno fatto i Morgan?


Dicesi "Morgan" una famiglia ovvero una coppia semi scoppiata in un'America semi scoppiata in cui tutti hanno paura di tutti. Si avverte "Il" pericolo ad ogni angolo, la paura di essere aggrediti, spiati, sorvegliati e minacciati. A quanto pare non è solo un sintomo del governo berlusconiano, ma parte di un'epidemia più generica che trova sua espressione in ogni Paese e continente: America compresa. Questo film si ispira grossolanamente a tale genere di fobia generato dall'attacco alle torri gemelle di 10 anni fa, ma il pretesto seppur valido è veramente banalmente attraversato. La trama è proprio poco credibile se non assurda e grottesca e ciò non fa parte del registro comunicativo del genere commedia all'americana. Finge di esserlo, ma per me è proprio espressione di una scarsa intuizione cinematografica. Alcune scene, poi, sono chiaramente dei fotomontaggi, per cui nemmeno l'aspetto visivo più cinematografico aiuta. L'ultima goccia che fa traboccare il vaso è la recitazione sempre monocorde di Hugh Grant, capace di non fare ridere nemmeno un gambero.