venerdì 26 settembre 2014

La mafia uccide solo d'estate

Un bambino di circa 9 anni rinuncia al vestito di Lancillotto per indossare un paio di orecchie sovradimensionate e impersonare la camminata strisciante di Andreotti.
Al termine della festa di Carnevale invita la sua principessa al cimitero, imitando la dichiarazione dell’Onorevole che aveva reso pubblico, durante una puntata di Costanzo, il suo primo (funestissimo) "Ti amo".
Pif riesce a definire i contorni di un personaggio che evolve nel tempo del film e della vita con un candore alienato che non avevo mai incontrato sullo schermo.
L'incomunicabile presenza della criminalità trova un suo veicolo di rappresentazione in scene come quelle appena descritte.
Lo stile è convinto ed omogeneo, la fotografia lineare e cupa, i dialoghi rispettano le immagini.

Accendo la televisione e la voce di Sabina Guzzanti che presenta il suo ultimo  “La trattativa” viene sequenzialmente sostituita dal cronista tv di turno che introduce una notizia sull’indagine Stato Mafia.

Ascolto tutto questo con il distacco che mi comunica la televisione: aggregatore di notizie e informazioni. Seppur di matrice giornalistica, il regista reso celebre, grazie alle sue interviste su Mtv, riesce a farmi vivere una dimensione dell’argomento che non denuncia né assolve, non descrive, né documenta. Riesce a farmela vivere. 
Pif accompagna col potere dei sentimenti disincantati una storia dallo stile parallelo alla commedia all’italiana. Tuttavia non lo incontra mai, perché non fa commedia. Rasenta il documentario, ma non vuole fare retorica, né istruire ed è troppo ancorato alla realtà delle percezioni piuttosto che a quella degli eventi per essere definito tale.

La vita del bambino che va a dormire la sera rassicurato dal padre con l’affermazione che intitola il film ed intanto diventa adulto testimonia la possibilità di vivere accanto ad una malattia sociale, portando con sé un po’ di morte dentro, ma conservando i propri sogni di giustizia.

martedì 27 maggio 2014

Le meraviglie


La campagna dalla piattezza priva di segreti ripresa in tanti piano-sequenza si anima a metà film grazie alla sagoma di un cammello. La scena visionaria tra il felliniano ed il bergmaniano vale da sola il Gran Premio della Giuria di Cannes 2014, così come la beffa finale della casa vuota con la tenda che si muove per mano del vento. La lentezza della vita agreste che cadenza le giornate della famiglia protagonista di "Le meraviglie" costituisce la nota dominante della musica del film. In tutto questo la regista inserisce la contrapposizione tra la fascinazione verso il mondo dello spettacolo e la semplicità della vita quotidiana. L' aspetto cavalcato dal cinema italiano di oggi costituisce una nota alta del film seppur non tra le più originali. "Le meraviglie" è una pellicola dalla linearità narrativa e dall' estetica neorealista, ma sottende una notevole complessità simbolica, che sta allo spettatore decriptare. Dietro le immagini si snoda un crocevia di sfumature e la abile regista sembra beffarsi di ogni palese etichetta di genere, spiazzando lo spettatore ogni qualvolta la trama sembra prendere una connotazione stereotipica. Così quando la bambina si ferisce mentre sta smielando, il film rinuncia al tema dello sfruttamento lavorativo minorile. Allo stesso modo il tema dello spettacolo che peraltro fornisce il titolo al film, non ne determina la conclusione. In questo modo la regista porta sullo schermo l' essenza di uno spicchio di società in cui i bambini sono concreti e gli adulti sognatori.

giovedì 17 aprile 2014

Noah

L'impatto estetico di "Noah" si articola in inquadrature che aprono verso scenari edenici che ricordano la campagna irlandese. Landscape reali e ricostruiti digitalmente si fondono armoniosamente in colori fulgidi, ma intensi. Russell Crowe, seppur nella sua limitata espressività, ben si cala nel ruolo del visionario illuminato ed incarna credibilmente i sentimenti del personaggio biblico. Se il film può apparentemente sembrare una buona lezione sulla Bibbia si scopre che la maggior parte degli eventi centrali narrati sono stati scritti da Aronofsky (dall'adozione della bambina all'imposizione divina di uccidere i nipoti per non perpetrare la specie). Nonostante ciò il regista gioca abilmente col senso di misticismo e riesce ad arrivare allo spettatore non solo grazie agli effetti speciali, seppur di alto livello (vedi la scena dell'acqua che diventa fiume e solca la terra fino all'orizzonte). Il valore della vita e della maternità sono gli aspetti della pellicola che mi hanno emotivamente più toccato ed il trionfalismo narrativo non mi è mai sembrato così autentico. Alcune scene con Jennifer Connelly sono gonfie di una teatralità calda che mi ha riportato la memoria alle tragedie greche di Siracusa a cui ho assistito una quindicina di anni fa. Realismo narrativo dubbio incorniciato da una fotografia perfetta in cui non c'è una composizione dell'immagine inesatta, intensità espressiva, una sceneggiatura diretta e comunicativa: il regista esteta de "Il cigno nero" confeziona così uno spettacolo dal ritmo avvincente.

domenica 23 marzo 2014

Lei

"Lei" è la calda voce femminile di Samantha, il sistema operativo IOS che fa da segretaria a Theodore, emblema dell'uomo ferito dalle donne e incapace di lanciarsi in una relazione coinvolgente. Il senso di claustrofobia relazionale mi ha pervaso in modo disturbante per tutta la metaforica trama, tramite la quale il regista gioca continuamente sull'accentuazione di ossimori, come quello tra solitudine e soffocamento amoroso. Samantha è "her" e non "it": il regista marca l'identità persona- oggetto tanto da dedicarvi il titolo del film. La sala del cinema era piena e sono sicura che ogni spettatore ha visto un film diverso. "Lei" racconta infatti un intreccio talmente al di sopra della realtà da fungere da passepartout per lo spettatore, diventando la chiave adatta ad aprire ogni cuore. Spike Jonze tira in ballo temi esistenziali come il futuro delle relazioni, la paura di innamorarsi e l'essenza dell'amore. Per questo è come trovarsi davanti ad una macchia del Rorschach, ogni persona vi proietta e vede la parte di sè che gli è più vicina. Universale e futuribile, "Lei" racconta l'essenza vulnerabile dell'uomo di oggi, di domani, ma soprattutto di quello sempre. Può essere visto come un'ipotesi dello sviluppo delle relazioni intime tramite i nuovi sistemi operativi che interagiscono con l'uomo o la elegante rappresentazione scenica della paura di vivere. Al contempo può essere un'intensa storia d'amore in cui l'assenza di contatto fisico non è che l'espressione dell'immensità del sentimento. La luce trascendente di alcune scene, così come alcune situazioni a contorno della trama principale regalano qualche chance a questa ultima interpretazione. Che cos'è un rapporto di coppia e che cosa significa amare? Il film bombarda letteralmente lo spettatore di stimoli ambigui che lo conducono nei meandri delle più personali riflessioni. Una di queste deriva dal proporre la contrapposizione tra l'assenza di schemi di vita nella relazione ed il loro ruolo al contempo rassicurante e soffocante. Sicuramente "Lei" è un film che spiazza: una storia che può essere interpretata seguendo vari rivoli interpretativi, ciascuno dei quali è già stato singolarmente espresso da altre pellicole. Rimane unica la sua capacità di sintesi condensata nell'invenzione di una relazione di questa fattispecie. Provocatorio e conservativo al contempo, gode di una fotografia dai colori eterei approfondita dall'intensità dell'interpretazione di Joaquin Phoenix. 

giovedì 20 marzo 2014

Allacciate le cinture

"Allacciate le cinture, turbolenze in arrivo" sono le parole infantilmente pronunciate dagli unici bambini dell'ultimo omonimo film di Ozpetek nell'ultimo fotogramma dei titoli di coda. Come un pacco che viene lentamente scartato e svela la sua essenza solo alla fine, questa frase sintetizza l'interpretazione che il celebre regista di origine turca propone della vita. Mantenendo il parallelismo con il decollo, il ritmo del film vi è molto simile. La prima parte soffre di una partenza lenta e sembra volersi perdere nell'apparente vuoto del teatro della vita, fatto di piccole cose apparentemente prive di importanza. Una volta che il motore è caldo e l'inerzia è stata vinta, Ozpetek vira bruscamente verso un registro comunicativo diametralmente opposto, andando al di là della copertina del libro esistenziale. Ne racconta l'essenza mediante l'assenza dando sfogo al vero paradosso della vita stessa. Ci accorgiamo di essere vivi solo quando abbiamo una viva percezione della morte. In questo nuovo scenario tutti i pezzi del puzzle trovano un loro incastro, i personaggi cambiano coralmente e si amalgamano in un equilibrio testimoniato dalle dinamiche relazionali che si svelano più solide del previsto. Il messaggio è fotograficamente accompagnato dalla trovata di fare cambiare repentinamente il colore ed il taglio dei capelli della triade di donne apparentemente sole. I rapporti si svelano nella loro autenticità e gli attori (Kasia Smutniak in primis) nella loro capacità di cambiare plasticamente registro comunicativo in maniera improvvisa.
Il regista si dimostra padrone della meccanica filmica smontando e rimontando i pezzi di questo apparato scenico e lo fa in maniera pulita. La vera cifra del film di Ozpetek, a cui è sempre piaciuto raccontare la vita nella sua pienezza (vedi ad esempio "Saturno contro" e "Mine Vaganti"), è proprio il saper riprendere quota nonostante le turbolenze, chiudendo la parentesi drammatica con la stessa dimestichezza con cui la apre. Con una scena che ricorda "Sliding Doors" e la genialità romana del "deus ex machina" Ozpetek trasforma in un incrocio fisico l'incontro della vita con la morte e riesce a risintonizzare la trama verso un finale che ne celebra la profondità acquisita mediante la sofferenza e ne contempla la bellezza. Il tutto trova una splendida sintesi fotografica nella rappresentazione del mare d'estate, che si agita d'inverno e torna improvvisamente di nuovo calmo e dai colori turgidi. Si avverte il piacere del regista di raccontare e poi sintetizzare in maniera così efficace gli stati d'animo intesi come stagioni della vita, così come la loro reversibilità. I capelli delle protagoniste cambiano coralmente colore e taglio come in un gioco scenico dall'impronta teatrale, una volta che la parentesi drammatica si conclude. Analogo meccanismo di condensazione che rafforza l'intento di concludere la narrazione del dramma è il sogno della protagonista. Il non colore bianco cancella la sofferenza come una spugna e riporta ad un presente carico di senso.
Che la crisi esistenziale non sia altro che un incubo da cui si esce repentinamente e con una improvvisa consapevolezza della forza interiore? Il tutto è incorniciato da una ricerca estetica molto forte in cui la bellezza è intesa come provocazione ed ostentazione. Anche in questo caso il filo con le altre pellicole di Ozpetek è ben riconoscibile. 

domenica 2 marzo 2014

12 anni schiavo

"Lo sguardo di Solomon Northup è senza prospettiva", questo pensiero mi attraversa come un fulmine i pensieri tormentati dalla visione del film più violento che il cinema abbia mai realizzato. La composizione fotografica del primo piano del protagonista lo vede guardare verso una direzione spezzata, mentre il resto dello schermo gli si pone alle spalle. Solomon si rivolge così al pubblico. Penso e francamente spero sia l'ultima scena del film, mentre lo "spettacolo" continua. 
Molte scene sono esasperanti per la violenza utilizzata, tanto da farmi chiedere più volte quanto sia arte tutto questo. Se il fine del regista è quello di emozionare e "scuotere" l'obiettivo è centrato. Se l'obiettivo è quello escatologico di pulire con due ore di pellicola la coscienza degli americani, il ruolo del film risulta ingombrante, ma formulato in maniera efficace. Se si pensa, invece, al cinema come luogo di espressione artistica ho un forte dubbio su quanto ciò che ho visto possa chiamarsi arte. Piuttosto è una bella lezione di storia, sicuramente più incisiva ed efficace di tante pagine scritte.
La schiavitù esiste ancora, "12 anni schiavo" ne racconta un capitolo importante. La costruzione del film non è il suo punto forte se se ne considera la creatività, ma lo è nella densificazione della tensione che genera. Si passa, attraverso tempi volutamente lenti e travagliati, dalla  violazione estrema della dignità umana a livello fisico a quella psicologica. Man mano che i minuti passano si è sempre più portati a riflettere sulla perdita della speranza, piuttosto che su quanto il protagonista stia subendo ora. Si entra nei pensieri di gente, che canta mentre raccoglie il cotone e dice di non sapere nè leggere nè scrivere, per evitare di fare una fine ancora peggiore da quella che presagisce. In questo silenzio ho molto rivisto il film completamente diverso per il tema trattato "Lo scafandro e la farfalla". Il regista riesce, infatti, a raccontare senza molte parole, ma con una fotografia all'altezza del ruolo accordatole, i pensieri del protagonista mediante le immagini. 
Il ruolo di Brad Pitt, deus ex machina riduce in maniera facile il ruolo del regista nel risolvere la tensione generata. Una polarizzazione di "bene" e "male" tutto sommato accettabile se si pensa che la differenza del comportamento dei "padroni" contro gli schiavi non è trascurata. Steve McQueen non scivola su questo aspetto a mio avviso importante. Riesce, anzi, a raccontare con limpidezza come gli schiavi diventassero oggetti su cui scaricare le proprie frustrazioni. 
Se il cinema è inteso come mass media il film rappresenta un'espressione forte e riuscita, se il suo ruolo è quello di comunicare, sensibilizzare ed educare "12 anni schiavo" lo fa, ma non ditemi che questa è arte.

mercoledì 29 gennaio 2014

Nebraska

"Nebraska" non è solo il racconto del sogno americano, peraltro già rappresentato cinematograficamente da molteplici grandi registi. Nel vederlo ci ho letto il racconto della fragilità dell' uomo, un trattato sull' età avanzata, affrontato con un tono energico e grottesco. 
Il colore seppia della pellicola non prova lontanamente a scimmiottare il bianco e nero del grande cinema americano anni '50, ma sintetizza cromaticamente il senso del passato e dei ricordi. In questa scelta ho visto un tentativo di affrancarsi dal cinema dei fratelli Coen. Alcune sequenze mi hanno lasciato scorrere i pensieri verso scene grottesche degli autori del cinema indipendente. Del resto il Montana è il set geografico del celebre Fargo. La tonalità cromatica utilizzata dal regista mi ha gettata come spettatrice in una dimensione dalla densità emotiva completamente differente.
 Al di là di somiglianze dalla consistenza che non vale più di una iniziale percezione, Nebraska è un film vulcanicamente sceneggiato. Le dinamiche familiari sono affrontate nella loro drammaticità con quella leggerezza che solo la saggezza del tempo riesce ad imprimere nella gestione dei rapporti adulti.
Una famiglia si mette in viaggio verso il ritiro di un premio che farebbe svoltare la vita già vissuta dell' anziano ipotetico vincitore, interpretato in maniera intensa da Bruce Dern. Dietro l'assurdamente inutile desiderio del protagonista di comprare un furgoncino, nonostante non possa più legalmente guidare, ed un compressore, c' è la voglia di riscattare un futuro migliore per i propri figli. 

Qual è il vero valore di 1 milione di dollari? Oltre a tutto ciò Nebraska per me ha rappresentato un viaggio di riflessione interiore tra l' importanza della realizzazione personale, materiale, sociale e familiare. Il denaro si svela così gradualmente come artefatto sociale, un jolly che si associa a tanti sentimenti, progetti e speranze, oltre al controverso tema del potere.

Al di là di questo aspetto, Nebraska è un film che mi ha trasmesso un forte senso della famiglia, di accettazione dei limiti altrui, laddove questo temine indica rispetto e non sopportazione.
Il film diretto da Alexander Payne ("A proposito di Schmidt", 2002) gioca al confine tra commedia e dramma, sovrapponendo un registro narrativo grottesco ad una trama dal forte potenziale drammatico.
Tutto l' intreccio è tessuto con accuratezza ed anche il difficile finale viene gestito con un ilare quanto realistico ribaltamento dei ruoli. 

martedì 28 gennaio 2014

Smoke


Rivedere "Smoke" a distanza di almeno diciassette anni da quando vi dedicai la mia prima timida recensione, è un viaggio estetico in quel panorama interiore di ricordi, fatto di immagini reali montate con scene da set.
"You are innocent when you dream" la frase della canzone che accompagna il miglior connubio tra cinema e letteratura risuona ancora dentro di me con quel tono graffiante e caldo, come un lamento di gioia. 
Per anni sono stata affascinata dalla raccolta di foto dI Auggie: tutte uguali, ma uniche. Per tanto tempo ci ho letto il senso del destino, legato all' immortalamento casuale di una persona che non c'è più. Oggi nella stessa ossessività fotografica vedo l'esortazione a non smettere mai di osservare. A lanciarci questa lezione è una delle figure professionali che fanno dell' osservazione la colonna portante della creazione scenica: il regista. Nulla è creato dal nulla, eccetto il nostro pianeta, almeno secondo alcune voci. Allo stesso modo la riflessione creativa nasce dall' osservare le impercettibili differenze: da ciò che è intangibile come un'opinione a ciò che si percepisce visivamente come l' angolo di mondo che Auggie immortala ogni mattina alle ore 8. 
Concedendomi una deriva personale posso affermare che finalmente ho capito perché la mia Prof. di Filosofia, nei miei trascorsi liceali, mi esortava a non tentare fantomatiche similitudini tra Hegel e Kant. Ognuno dà il proprio contributo al mondo grazie alla propria unicità ed irripetibilità.
"Smoke" è una lirica della quotidianità, ma rivedendolo ci ho scorto anche molta retorica narrativa ed espressiva nel tentativo di porre in parallelo due forme opposte di rappresentazione: filmica e letterarIa, peccando a volte di un tono troppo didascalico.
Al di là di questo il racconto di Natale di Paul Auster, cinematograficamente narrato dal mito del cinema americano indipendente Harvey Keitel, è una poesia in prosa. Ricordo di averlo sbobinato, se si può usare questo termine, quando ancora c' era il vhs e dovevo cliccare su rewind quando mi perdevo qualche parola. Una maniacale ricerca estetica devo ammettere che mi ha sempre pervaso. Oggi non so dove sia finito quel foglio, so che quando ieri ho sentito Harvey iniziare a pronunciare il racconto, una sorta di "play" è partito nel nastro della mia memoria.

mercoledì 15 gennaio 2014

American Hustle - L'apparenza inganna


La truffa americana di "American Hustle" spiazza e coinvolge. Affilata ne è la sceneggiatura, dai dialoghi ricercati e dalle metafore azzeccate. David O.Russell, regista di film riusciti come "Il lato positivo" orchestra e ritma la trama con un' ironia ben dosata, che non sconfina mai nel grottesco, distinguendosi così da alcune pellicole dei fratelli Coen. Il cast è ricco di star dalle performance di livello elevato. Christian Bale è fisicamente simile ad un "Grande Lebowsky" privo di autoironia. Le due interpreti femminili si dividono equamente la perfetta rappresentazione di due facce della figura della donna nella sua evoluzione contemporanea: sensualità e dinamismo misto a furbizia e sensualità sposata ad uno stereotipo femminile maschilista.
Il protagonista Bradley Cooper, che domina le scene del cinema americano attuale, interpreta il ruolo che meglio si sposa col suo stile espressivo: l'ordinary man che si trova ad adattarsi a diverse codifiche della realtà ed a rimettere, dunque, in discussione le proprie verità.
Il cameo di Robert De niro conferisce un ulteriore tocco di classe.
Nonostante qualche sbavatura nel doppiaggio italiano, American Hustle è un film autentico con degna rappresentazione del cinema indipendente americano.