giovedì 20 marzo 2014

Allacciate le cinture

"Allacciate le cinture, turbolenze in arrivo" sono le parole infantilmente pronunciate dagli unici bambini dell'ultimo omonimo film di Ozpetek nell'ultimo fotogramma dei titoli di coda. Come un pacco che viene lentamente scartato e svela la sua essenza solo alla fine, questa frase sintetizza l'interpretazione che il celebre regista di origine turca propone della vita. Mantenendo il parallelismo con il decollo, il ritmo del film vi è molto simile. La prima parte soffre di una partenza lenta e sembra volersi perdere nell'apparente vuoto del teatro della vita, fatto di piccole cose apparentemente prive di importanza. Una volta che il motore è caldo e l'inerzia è stata vinta, Ozpetek vira bruscamente verso un registro comunicativo diametralmente opposto, andando al di là della copertina del libro esistenziale. Ne racconta l'essenza mediante l'assenza dando sfogo al vero paradosso della vita stessa. Ci accorgiamo di essere vivi solo quando abbiamo una viva percezione della morte. In questo nuovo scenario tutti i pezzi del puzzle trovano un loro incastro, i personaggi cambiano coralmente e si amalgamano in un equilibrio testimoniato dalle dinamiche relazionali che si svelano più solide del previsto. Il messaggio è fotograficamente accompagnato dalla trovata di fare cambiare repentinamente il colore ed il taglio dei capelli della triade di donne apparentemente sole. I rapporti si svelano nella loro autenticità e gli attori (Kasia Smutniak in primis) nella loro capacità di cambiare plasticamente registro comunicativo in maniera improvvisa.
Il regista si dimostra padrone della meccanica filmica smontando e rimontando i pezzi di questo apparato scenico e lo fa in maniera pulita. La vera cifra del film di Ozpetek, a cui è sempre piaciuto raccontare la vita nella sua pienezza (vedi ad esempio "Saturno contro" e "Mine Vaganti"), è proprio il saper riprendere quota nonostante le turbolenze, chiudendo la parentesi drammatica con la stessa dimestichezza con cui la apre. Con una scena che ricorda "Sliding Doors" e la genialità romana del "deus ex machina" Ozpetek trasforma in un incrocio fisico l'incontro della vita con la morte e riesce a risintonizzare la trama verso un finale che ne celebra la profondità acquisita mediante la sofferenza e ne contempla la bellezza. Il tutto trova una splendida sintesi fotografica nella rappresentazione del mare d'estate, che si agita d'inverno e torna improvvisamente di nuovo calmo e dai colori turgidi. Si avverte il piacere del regista di raccontare e poi sintetizzare in maniera così efficace gli stati d'animo intesi come stagioni della vita, così come la loro reversibilità. I capelli delle protagoniste cambiano coralmente colore e taglio come in un gioco scenico dall'impronta teatrale, una volta che la parentesi drammatica si conclude. Analogo meccanismo di condensazione che rafforza l'intento di concludere la narrazione del dramma è il sogno della protagonista. Il non colore bianco cancella la sofferenza come una spugna e riporta ad un presente carico di senso.
Che la crisi esistenziale non sia altro che un incubo da cui si esce repentinamente e con una improvvisa consapevolezza della forza interiore? Il tutto è incorniciato da una ricerca estetica molto forte in cui la bellezza è intesa come provocazione ed ostentazione. Anche in questo caso il filo con le altre pellicole di Ozpetek è ben riconoscibile. 

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