lunedì 15 aprile 2013

Fight Club

Per anni il mio sguardo si è accidentalmente posato sul vhs di Fight Club: una delle poche videocassette della cineteca di una mia cugina. Correvano gli anni '90 e la visione di quel titolo mi trasportava con l' immaginazione dentro un miscuglio di mistero, paura e curiosità. A vent'anni di distanza mi ritrovo col DVD di Fight Club in mano, chiudo gli occhi ed affronto le sensazioni conturbanti di questi ricordi.
Fight Club è un film che rispecchia pienamente il mondo narrato dallo scrittore Chuck Palaniuk, tanto che non potrebbe che essere tratto da un suo libro. La tanto temuta violenza fisica del film, in realtà è un'inezia rispetto a quello che il cinema di oggi ci propone ed il livello al quale i media di oggi ci hanno addomesticato. Il vero aspetto conturbante, anzi disturbante è che la violenza narrata non è esteriore, ma rappresentazione della mente di una persona disturbata. Trattandosi dell'io narrante la questione si fa ancora più brutale perchè comporre il puzzle diventa veramente difficile: il discrimine tra realtà e delirio è nebulosamente intrigante, ma altrettanto inquientante. La schizofrenia è una malattia psichiatrica che si presta facilmente al cinema, proprio per il potere che ha di trasformare la vita quotidiana di una persona in un giallo.
La prima regola del Fight Club è non parlare mai del Fight Club. Stando così le cose e messi faticosamente in ordine i vari pezzi, mi chiedo se allora esista un Fight Club o se sia solo il frutto dell'immaginazione di Tyler che peraltro neanche esiste.
Da Psicologa mi verrebbe facile inoltrarmi in un'analisi di ogni pezzo di questo delirio, ma visto che si tratta di un film e non di una reale cartella clinica, mi limito a lanciare in rete le mie sconcertanti sensazioni sull'apocalittico mondo in cui naviga la mente del protagonista.
Tyler vuole vivere fuori dall'ordinario e la sceneggiatura è intrisa di massime condivisibili su come interpretare la vita. La prima regola di Tyler è infatti “Niente paura, niente distrazioni, la capacità di lasciarsi scivolare di dosso ciò che non conta.” Il vero asso di questa cupa pellicola sta proprio nel proporre continui ossimori tra ciò che Tyler dice ed il mondo che si crea attorno a lui. Gli aulici valori si scontrano con lo squallore delle sue azioni reali ed immaginarie che siano.

Mi piacerebbe concludere con una nota sulla pettinatura di Helena Bonham Carter, la ragazza con cui Luke ha una relazione o comunque con cui interagisce. Il suo personaggio costituisce il ponte con la normalità e trovo geniale l'aver voluto conferire un aspetto così assurdo anche alla portavoce della realtà, quasi a voler sdrammatizzare in maniera grottesca tutto l'orrore che il film propone.

Come un tuono

Come un tuono, la morte del "malvivente-per-necessità" Luke, irrompe nella vita del microcosmo in cui ognuno di noi costruisce la propria esistenza, ma in particolare di due persone: il poliziotto "colpevole" dell'uccisione ed il figlio di solo un anno al momento del misfatto.
"Come un tuono" corrisponde a140 minuti di film in cui si dipanano le strade delle rispettive coscienze di chi si è macchiato le mani di un delitto,seppur nella legalità, e di chi a questo sangue vuole dare un senso.
Pur eccedendo nella ridondanza descrittiva del personaggio di Luke nella prima ora di film, la storia si rianima nella seconda parte riscattandosi con un buon ritmo. Nonostante il regista riesca a non cadere mai nel patetico, non riesce però a sfuggire alla prevedibilità della trama, messa giù seguendo tutti i luoghi comuni del cinema americano. E di film simili ahimè ne sono stati sfornati tanti: "Molto forte incredibilmente vicino", tanto per citarne uno. Il parallelismo facile con altre trame rende difficile anche il finale, che a mio avviso è troppo narrato e poco cinematografico. Credo, infatti, che il cinema debba lasciare spazio all'immaginazione, non debba riempire di spiegazioni completive.
Deve rimanere qualche angolo in bianco, qualche parola mancante, una inquadratura spiazzante o una colonna sonora disallineata. Lo spettatore ha il diritto di scegliere come riempire queste sbavature,  a malavoglia anche, ma senza senza che gli sia precluso il gusto di proiettare un pò del suo mondo in quello che vede.