giovedì 3 marzo 2011

127 ore


Dopo il claustrofobico "Buried", che ero riuscita ad evitare tramite un efficiente servizio di informazione preventiva, "127 ore" cavalca il filone delle tragedie solitarie. Stavolta, però, non mi ero fatta l'idea di una storia così disperata. Avevo colto solo il lato della storia che comunica libertà, cioè l'esplorazione solitaria dello Utah da parte di un alpinista americano: Aron Ralston. Non avevo, invece, compreso che il vero focus del film riguarda l'incidente del protagonista che lo mette a diretto contatto con l'idea realistica della propria morte. Aron cade in una rientranza profondissima ed il suo braccio rimane schiacciato e prigioniero di una roccia.

Prova a liberarsi da solo, ma la sua sola forza è insufficiente. Mette in atto le migliori strategie per sollevare il macigno. La propria calma e stabilità d'animo è enorme ed è il sentimento di maggior fascino che emerge dalla storia. Nessuo sa che Aron è lì e lui a questo ci pensa, così come pensa ai suoi genitori che non ha salutato prima di andare via, alla sua infanzia, ai propri ricordi di giovane ragazzo. Tutte queste immagini si alternano a razionalissimi pensieri su come uscire da quella situazione, finchè Aron, arrivato alla 127a ora, capisce che l'unico modo per uscire vivo di lì è tagliarsi il braccio.

L'attore candidato al premio Oscar è convincentissimo e la fotografia di ciò che vede ed immagina il protagonista è spettacolare. La libertà che comunicano gli ampi spazi cozza con lo stato del protagonista, che ormai è convinto di non uscire più da quel buco.

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