Calabria, amata, odiata terra di povertà, dimenticata da tutti e lambita da un mare che soffoca e dà speranza. E' questo il pensiero di Calopresti mentre cerca di scoprire qualcosa per cui valga la pena di tornare. In un irrazionale quanto visionario fluire di immagini e situazioni improbabili, questo film si compone faticosamente pezzo dopo pezzo. All'inizio sembra che nemmeno il regista sappia cosa voglia raccontare. Le prime scene sono sconnesse e da documentario. Piano piano una flebile quanto improbabile trama prende poveramente corpo ed il film sembra lì per lì, un disastro. Se non che viene da pensare che tutto ciò sia voluto: che veramente che questo senso di improvvisazione, che aleggia ridondantemente su tutte le scene non sia altro che l'emblema della terra che racconta. La Calabria è infatti una terra di transito, senza un'identità consapevole, dove il mare è l'elemento selvaggio ed immenso, che illumina, con la sua assenza di confini, piccoli, sconosciuti luoghi senza speranza, laddove i sogni vivono nell'anima degli abitanti senza pretendere troppo spazio.
La trama sembra, allora, raffazzonata come la terra che racconta; una terra simile ad un bambino piccolo pieno di energie e di risorse sconosciute e pieno di semplicità. Una terra come una borsa in cui ancora frugare, dove le star del cinema sono ancora sconosciute, ma comunque osannate perchè provenienti da un mondo superiore. Tutto procede nel modo meno credibile possibile, alimentando un'attesa grottesca che esplode nella scena finale in cui si sente un forte richiamo alle atmosfere gitane di Kusturica.
Da meridionale ho amato questo film proprio per i limiti che racconta e per questo tocco di irrealtà che con una folata di vento riesce a far dimenticare quello che inconsapevolmente si è.
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