"The Lobster" è paragonabile ad una macchia di Rorschach. I suoi tratti inquietanti in antinomia con il tono sarcastico della narrazione lasciano allo spettatore tutto lo spazio interpretativo che vuole prendersi. Per questo ho visto persone uscire dalla sala a tre quarti di pellicola, altre ridere di fronte alle innumerevoli provocazioni del regista greco vincitore del Premio della Giuria.
"The Lobster" si suddivide nettamente in due sezioni, come a voler scimmiottare i gironi danteschi o un videogame a schemi. In entrambe il regista declina la bestialità dell'uomo minacciata nella prima parte dalla sua provocatoria metamorfosi in un animale.
Il film vincitore del Premio della Giuria a Cannes racconta l'espiazione del dolore attraverso un surreale soggiorno in Hotel. Essere rimasti soli diventa una colpa e pur di superare questa condizione alcuni sono disposti a mentire di fronte a tutti, fingendosi di innamorarsi. L'identità sociale e la maschera pirandelliana che le sofferenti vittime vestono, sovrastano con la loro freddezza i rispettivi sentimenti, pur di scongiurare la metamorfosi. Del resto la sofferenza può nobilitare, ma anche abbrutire.
La seconda sezione del film ribalta il set: da un freddo Hotel di Lusso si passa ad un bosco selvaggio e l'innamoramento da dictat diventa tabù.
L'uomo si ritrova così a scappare rimanendo ingabbiato a regole sempre più opprimenti, senza riuscire a trovare un proprio spazio.