Into Paradiso è un titolo che, seguendo le libere associazioni che il film stesso evoca, sembra voler strizzare l'occhio a chi se ne intende di dialetto meridionale, in base al quale "into" risulta essere la stilizzazione di "dentro". Supposizioni etimologiche a parte, non è facile per una entusiasta reduce dell'ultimo film di Albanese, abbandonarsi al ritmo ed alle modalità narrative con cui l'opera prima di Paola Randi cerca di proporre la malavita napoletana. Credo, infatti, lo ammetto, di essere stata in balia inerte di una sorta di effetto primacy per la prima mezz'ora del film. Qualsiasi scena vedessi veniva raffrontata in automatico con l'indiscutibile forza comunicativa di Cetto La Qualunque. Per fortuna mi sono riuscita a liberare di questa deformazione quando la trama, a mio parere, ha cominciato a farsi più intrigante e meno scontata. Quello che posso dire a sangue freddo è che "Into Paradiso" è un film corale, in cui gioca un rolo cruciale il ribaltamente provocatorio dei ruoli prototipici dei personaggi. Gli Srilankesi non sono gli immigati disperati ed ammaliati dall'Italia, ma clandestini impauriti dalla stessa. Si rifugiano in un palazzo e non vedono l'ora di rimpatriare. Il malavitoso candidato sindaco gioca il ruolo di protagonista solo in via indiretta, come deus ex machina oserei dire. Rimane, infatti, imbavagliato per quasi tutto il film e con il suo non verbale straordinario, che solo il genoma dei Servillo mette a disposizione, domina la scena pur rimanendo ammutolito ed insonorizzato.
Sembra, insomma che la realtà venga rappresentata impressionisticamente per poterne fuggire in maniera onirica, come fà il protagonista quando arriva a vedere la via di fuga del proprio problema, come in un freudiano sogno ad occhi aperti, che ricorda molto da vicino alcuni video di Battiato.
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