
Il regista si dimostra padrone della meccanica filmica smontando e rimontando i pezzi di questo apparato scenico e lo fa in maniera pulita. La vera cifra del film di Ozpetek, a cui è sempre piaciuto raccontare la vita nella sua pienezza (vedi ad esempio "Saturno contro" e "Mine Vaganti"), è proprio il saper riprendere quota nonostante le turbolenze, chiudendo la parentesi drammatica con la stessa dimestichezza con cui la apre. Con una scena che ricorda "Sliding Doors" e la genialità romana del "deus ex machina" Ozpetek trasforma in un incrocio fisico l'incontro della vita con la morte e riesce a risintonizzare la trama verso un finale che ne celebra la profondità acquisita mediante la sofferenza e ne contempla la bellezza. Il tutto trova una splendida sintesi fotografica nella rappresentazione del mare d'estate, che si agita d'inverno e torna improvvisamente di nuovo calmo e dai colori turgidi. Si avverte il piacere del regista di raccontare e poi sintetizzare in maniera così efficace gli stati d'animo intesi come stagioni della vita, così come la loro reversibilità. I capelli delle protagoniste cambiano coralmente colore e taglio come in un gioco scenico dall'impronta teatrale, una volta che la parentesi drammatica si conclude. Analogo meccanismo di condensazione che rafforza l'intento di concludere la narrazione del dramma è il sogno della protagonista. Il non colore bianco cancella la sofferenza come una spugna e riporta ad un presente carico di senso.
Che la crisi esistenziale non sia altro che un incubo da cui si esce repentinamente e con una improvvisa consapevolezza della forza interiore? Il tutto è incorniciato da una ricerca estetica molto forte in cui la bellezza è intesa come provocazione ed ostentazione. Anche in questo caso il filo con le altre pellicole di Ozpetek è ben riconoscibile.
brava!!!
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