"Still life", due parole, tre sillabe che il mio traduttore automatico mentale aveva reso con "ancora vita" o "semplicemente vita". Entrambe le espressioni rappresentavano per me le aspettative che mi ero costruita del film: frammenti di vita, di una vita semplice. Per libera associazione avevo subito pensato al film a "As soon as it gets" di Woody Allen.
Così quando in un freddo pomeriggio prenatalizio entro in una sala d'essai, dimenticata negli angoli di un mio passato così stranamente recente, mi imbatto in una vita dalla concezione opposta. La traduzione di still life è infatti "natura morta". Dientro la semplicità e sobrietà del volto surreale del protagonista, che dentro il lampo di un secondo mi ricorda il personaggio paffuto di "Up!", sta il vuoto ed il silenzio di una vita che sa di pranzi con cibi in scatola ed ordinarie fette di toast, guardando solitariamente il muro di fronte. Giorno dopo giorno si consuma la vita di John May, isolato dal mondo delle relazioni, se non da quelle coi defunti, anch'essi abbandonati. Se si dovesse trovare un job title al mestiere di Jonh May eufemisticamente direi che il suo compito era curare l'anagrafe dei defunti, procacciando un pubblico alle loro esequie. John May ha un viso lunare e con questo pallore mortuario cerca nella morte il senso della vita degli altri e, quindi della propria. Cerca la comunicazione nella comunione delle anime durante l'estremo rito del funerale, quando in realtà è alla ricerca del proprio ruolo comunicativo, della propria storia. Nella sua ricerca casuale, John May incontra tante storie e costruisce la propria vita con il collage accurato delle mezze parole che riesce a catturare di bocca alle persone che non vogliono parlare del defunto in questione. Un macabro Sherlock Holmes? In realtà John May non deve scoprire nulla, solo riparare.
Il suo luogo di lavoro è un ufficio pervaso di bianco, il non colore più travolgente e freddo, anche perchè rimanda al colore della neve. Ha un telefono a disposizione, con il quale contatta le persone che avrebbero potuto conoscere il defunto di turno. Se la cornetta è il suo interlocutore, la morte è un diritto da tutelare. Esco dalla sala pensando che "Still life" è una natura tutt'altro che morta, è un inno alla dignità della vita. E' l'articolo 36 della Costituzione. Sono quelli che salgono sulle fabbriche perchè perdono il lavoro. E poi sono tutti quelli che non hanno il coraggio di vivere e nemmeno di morire.
"Still life" è un film che ti torce un pugnale nello stomaco. Parla alla pancia prima che al cuore. Solo quando si tocca alla pancia si riesce a dire "non è giusto", prima ancora di dire "è vero".
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