Non è mai facile scrivere in merito ai film di Tarantino: sembra sempre che il linguaggio verbale non contenga vocaboli talmente originali e provocatori da trasmettere quello che il regista comunica ogni volta al pubblico in sala.
Come definire Django?
Sicuramente non esiste una frase che lo possa incasellare. Posso, però, dire che tra la beffa e la celebrazione esistono mille sfumature e Tarantino si diverte ad attraversale tutte con una potenza di sintesi visiva estrema. Il genere in oggetto è il western, quello che ha reso celebri i più grandi registi e attori della storia del cinema americano e che racconta un pezzo della storia degli Stati Uniti.
Django è il nome di un ragazzo di colore talmente annichilito dalla frustrazione di tutto ciò che ha visto, sopportato e subito da schiavo, da non avere più paura di niente.
Unendo farsa e celebrazione in stile Shrek, ma in versione splatter, Tarantino racconta una storia darwiniana sulla lotta alla sopravvivenza, dove le ipotesi lombrosiane che hanno piegato la dignità di una razza vengono smentite dalla voglia di riscatto sociale e prima ancora esistenziale di Django. Il protagonista è si un nero, ma è intelligente più di tanti bianchi ed il film è la celebrazione della sua escalation verso l'emancipazione. La scena in cui il protagonista riesce a giocare le poche carte che ha per tirarsi fuori dalla gabbia in cui era incatenato mentre gli altri schiavi rimangono lì a sopportare la loro condizione è da antologia.
Tutto nel film è armonico: dai dialoghi alla scenografia alla colonna sonora. L'accuratezza verso ogni dettaglio è maniacalmente autocelebrativa, tanto da risultare pregio e limite del film.
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