"Un Paese non è solo quello che fa, ma anche quello che tollera"
Kurt Tucholsky, 1933
Un montaggio onirico, un pò felliniano ed un pò almodovariano, di tutti quei piccoli gesti quotidiani, che, per assurdità, si possono comparare alla guerra. Essa li riassume e li fa esplodere. Questa la forza inventiva che scatena la fantasia del regista di Nazareth, Elia Suleiman, già premiato a Cannes nel 2002 con "Intervento divino". Questi da stratega di tutta la teatralissima messa in scena de "Il tempo che ci rimane", diventa alla fine protagonista: si appropria della sua creazione entrando silenziosamente in scena. Da Nazareth a Ramallah, dal 1943 ad oggi. La storia viene raccontata tramite piccoli gesti, frustrazioni negazioni, assurdità. Una anziana donna mangia un cornetto gelato di notte di nascosto da sè stessa: ha il diabete. Un uomo si rovescia addosso della benzina ed arriva quasi a darsi fuoco, ma viene salvato da chi conosce questo suo rituale. Un bambino, il regista da piccolo, viene costantemente sgridato a scuola dalla maestra per le sue esternazioni sull'America. Quante regole non dette, quante costrizioni non autorizzate, quante violazioni passivamente tollerate. Ognuno di questi gesti rappresenta la guerra ed il tempo che rimane da essa. Uno zoom microchirurgico su ciò che accade dentro le case, mentre fuori accade la guerra.
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